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Il bar della piazza e il cane. Due del pomeriggio |
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I fotografi e gli sposi |
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La pita aspetta |
Paese deserto. Troppo presto le due del pomeriggio. Il tempo
promette clemenza. Due di maggio ad Alessandria del Carretto, confine fra
Calabria e Lucania. Montagne del sud-est italiano. L’albero ha avuto pazienza.
Da cinque giorni se ne sta in mezzo allo slargo di pietra che vuole essere
piazza. E’ stato capace di aspettare. A fianco della vecchia chiesa di San
Vincenzo diventata, negli anni, asilo e oggi un altro luogo che aspetta e, alla
bisogna, offre rifugio. C’è il bar-pizzeria, uno dei crocevia del paese. La
piazza, con le sue panchine in ferro e pietra, è terminale delle brevi
passeggiate da un capo all’altro del paese. L’albero, da quando mondo è mondo,
è sempre stato alzato qua. Anche quando qui era solo terra battuta. Trent’anni
fa vi hanno costruito una fossa in cemento. Modernità della festa. L’albero, la pita, l’abete deve scivolare là dentro per alzarsi verso il cielo.
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Appaiono due uomini |
C’è stato un matrimonio. Gli sposi si attardano con i
fotografi sui gradini della chiesa. Poi rimango solo con un cane. Che non mi fila nemmeno un po'. Al due di maggio,
vigilia di sant’Alessandro, c’è da lavorare
l’albero. Mancherà chi è andato al matrimonio. Intuisco che qualcuno
bofonchia la sua muta protesta. C’è bisogno di gente esperta: che sappia di
motosega e falegnameria dei boschi. Ogni persona è preziosa. L’albero deve
essere squadrato: lungo non più di diciotto metri. Trentotto centimetri di
base. Niente è improvvisato nel rito della pita.
L’albero è rassegnato. Aspetta davvero che si compia il suo destino. Due uomini
si siedono sulla panchina. Mi dicono un motto di paese che mica so se scrivo
giusto: ‘Alessandria del Carrett, farci lurd e nas nett’.
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Guardare l'albero |
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La prima misura |
Con lentezza paesana, gli uomini (questo giorno è maschile. La festa dell’albero è
storicamente una storia di uomini) si avvicinano alla piazza. Uno osserva
l’albero, un altro tira fuori il metro e prende le misure. Gli altri girano
attorno, le mani in tasca, cappello in testa, gli occhi prudenti, come se
guardassero un grande animale con qualche diffidenza e, allo stesso tempo,
interesse. Soppesano il lavoro da fare. C’è il caffè da prendere.
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La corda della campana |
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Il suono della campana di San Vincenzo |
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Gli attrezzi |
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Proviamo a girare |
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L'albero va girato e rigirato |
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L'albero deve essere diciotto metri |
Nessuno sembra comandare. Ma, questa volta, c’è un segno di
avvio dei movimenti. Bisogna suonare
la piccola campana della chiesa di san Vincenzo. Si snoda la corda, c'è da fare un nuovo legaccio. Salgo le scale che portano sotto le campane. La
chiesa-asilo ha l’aria dell’abbandono. ‘Qui sono andato a scuola. C’erano le
suore’, mi dice un uomo e ruota la mano come a mostrarmi dove ha passato la sua infanzia. C’è un biliardino solitario, un
crocifisso, due vasi con fiori finti. Ora suona la campana. Si comincia. Spuntano fuori gli attrezzi. Un paio di
motoseghe, sbarre di ferro come leve, accette ben affilate, una livella. Zi’ Franco dice: ‘Restituite le leve, chi
se l’è prese ci ha appeso i salami’. Almeno capisco così. Gli uomini si
moltiplicano. Arriva il vino. C’è silenzio, non è ancora tempo di musica. Questo
pomeriggio è lavoro di attenzione. Giuseppe è uno dei vecchi. Sa il suo mestiere. Si muove con qualche fatica. Ha portato
la tinta e vi immerge un cordino. Serve a tirare la linea di colore che deve
guidare i denti della motosega. L’albero sarà quasi dimezzato, ma deve essere
dritto, bello, liscio. Mi piace il gesto con il quale il cordino lascia il suo
segno: Giuseppe alza il filo e fa uno snap
con le dita e la linea si disegna sul tronco. Occhio sulle livelle per non
sbagliare nemmeno di un centimetro. Qui ci vuole esperienza. Ci si guarda e ci
si intende con un gesto del capo.
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Una linea dritta |
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Comunità |
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Occhi e mani esperte |
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Nuvole di segatura |
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Giriamo questa pita |
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Dritto |
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Lavoro di accetta |
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Lavoro di fino |
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Dritto |
Il prete non si vede. La festa è di sant’Alessandro, santo
del paese. Ma qui il parroco se ne sta distante dall’albero. E’ il solo, fra i
riti arborei del Pollino e delle Dolomiti Lucane, dove il prete non appare.
Chiedo. ‘Deve stare lontano. Qui non comanda nessuno’. Ho avuto la risposta che
meritavo. La giovane antropologa mi spiega: ‘Rito di identità. Rito sociale’. Mi
guardo attorno: sì, questa è comunità. Comunità provvisoria di una festa, di un
giorno, di una fatica. Mi piace questa storia.
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La tinta per colorare il cordino |
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Snap |
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In bolla |
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Spettatori |
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Spettatore |
Ora si lavora di motosega a squadrare il tronco. Lavoro di
forza e precisione. Ci provano anche i ragazzi. Con qualche maldestrità. Impareranno.
Hanno voglia. Nuvole di segature. Con le accette si lavora di fino. Togliere i
nodi, le imperfezioni del legno. Il lavoro è lento. Non concede nulla allo
spettacolo. Questa è storia seria. Si prendono misure. Si va avanti a movimenti. La sensazione è che tutti
sappiano esattamente cosa fare. Zì Francesco
non ha smesso un solo minuto di lavorare di accetta. Gli altri si prendono il
momento del fiato. Bisogna scolpire anche lo scalino in cui verrà appoggiata la
cima. Il tronco va girato e rigirato. Ha quattro lati, maledizione. E tutti
devono essere levigati come pelle. Sfioro il tronco. Legno fresco. Michelangelo
lo guarda come chi già sa che vorrà arrampicarvisi sopra quando sarà ritto
verso il cielo. Lo tocca, quasi a saggiarne la consistenza.
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E tira.. |
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Il vino |
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Squadrare |
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Alessandro |
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Lavoro di pialla |
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Altri cento anni di festa |
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Guardare da solo |
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La chiesa che è diventata asilo e ora aspetta |
La giornata se ne va. Il cielo ha risparmiato la pioggia.
Altri movimenti, non ti puoi distrarre, nessuno avverte: arrivano i legni della
cassa che sigillerà in una morsa
l’albero, ci sono le scale giganti, folle strumento di innalzamento, i legni
delle forche. Già si pregusta l’impresa del giorno successivo. Eppure tutto
appare tranquillo. I ragazzini e i vecchi ora piallano il legno. Altri uomini
scopano via le segature. La piazza deve risplendere, tirata a lucido. Le
previsioni dicono pioggia. Come è cominciato il lavoro, con lentezza è finito.
Senza squilli. Al rallentatore. Si scantona nella chiesa diventata asilo, una
tovaglia, la carne dell’agnello, il formaggio, la salsiccia, il vino. Seduti su
sedie di plastica. Qualche parola. Ci si scrolla di dosso la stanchezza del
lavoro. Fare parte di qualcosa. Basta. Finito. Per oggi.
Matera, 6 di maggio
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