venerdì 21 dicembre 2012

Storie d'Etiopia/Cuochi d'Africa

Il bar di Ahmed Ela



Vorrei che Carlin Petrini fosse qui. In vetta all’Erta Ale, vulcano della Dancalia. Per osservare il lavoro di Bruk. Provate voi a preparare cannelloni ripieni per quattordici turisti, quattro scout, quattro cammellieri, un paio di guide e sei soldati. Vorrei vedere qualcun altro cucinare, sopra due bomboloni, con una torcia da testa e quasi senz’acqua. Vorrei vedere un altro cucinare come fanno i cuochi d’Africa. I cuochi d’Africa sono i migliori del mondo, al diavolo il politically correct. I più bravi, i più resistenti, i più capaci, i più geniali.

Ho visto Bruk lavorare con venti di sabbia, con polvere di lava che roteava attorno ai suoi fuochi. L’ho visto preparare a notte fonda riso con verdure per il giorno dopo. L’ho visto imbandire una tavola in mezzo alla Piana del Sale. L’ho visto pelar patate e mettere una goccia di aceto balsamico come ultimo tocco sui cannelloni. L’ho visto grigliare carne e sfornare pane da un forno ricavato da ciottoli vulcanici.

Bruk di ritorno dal forno di Ahmed Ela


Bruk ha solo 23 anni. Una volta, quando era ancora più giovane, mi apparve davanti con un grembiulino a fiori e io sorrisi stupito. La madre di Bruk è dorze, popolo del Sud dell’Etiopia. Non credo che Bruk abbia mai conosciuto suo padre. Ha due fratelli e una sorella. Lui è il più grande. Ebbe una qualche fortuna: ogni volta che alcune guide di gruppi di turisti arrivavano a Jinka, crocevia del Sud etiopico, lo ingaggiavano come aiuto cuoco (che vuol dire: tagliare aglio e cipolle, ubbidire al volo ai comandi del cuoco, lavare montagne di piatti, ripulire la cucina). Si fece notare, Bruk. Qualcuno intuì una possibilità. E gli pagò il viaggio verso Addis Abeba. Bruk poteva davvero essere un cuoco.

Bruk nella capanna-cucina


Un anno di scuola a Piazza, quartiere del centro della capitale etiopica. ChefYes, si chiama la scuola. Il ragazzo impara. L’agenzia turistica lo assume. Vale la pena provare. E a lui vengono affidati i viaggi complicati: il Sud con troupe cinematografiche, la Dancalia con le sue lave e i suoi vulcani, i viaggi a piedi. Bombole e cibo che viaggia a dorso di asino o cammello. Pranzi e cene da preparare pensando già all’indomani. Cucinare di notte. Non dormire mai. Svegliarsi ben prima dell’alba per le colazioni. Avere a mente le bizzarrie dei turisti venuti dall'occidente: ci sono i vegetariani, i vegani, chi ha allergie, chi non sopporta certi cibi, chi vuole solo pasta e chi invece vorrebbe saperne di più di gastronomie etiopiche. Provate a voi a tenerli a bada. Bruk ci riesce.

In vetta all'Erta Ale


La sua cucina (una capanna, un igloo di pietre, un riparo di fortuna) è un campo di battaglia. Cipolle e melanzane disperse ovunque, due pentole che sobbollono. Una zuppa dei miracoli che salta fuori come per incanto (è la sua specialità), una torta per un compleanno annunciato solo nel pomeriggio, lasagne che aiutano a rendere bella la vita e uno spicchio d’arancia alla fine.

Cucinare ad Ahmed Ela

‘No, non è la stessa cosa cucinare nel field e stare in una grande cucina. Qui bisogna darsi da fare con niente e garantire allo stesso tempo qualità’. Bruk mette soldi da parte. Tutti capiscono che le mance per lui devono essere generose. Spera, un giorno di aprire, un piccolo ristorante al suo paese. Al Sud.

Fatuma cucina per la famiglia

A notte, nel villaggio di Ahmed Ela, paese di cavatori del sale, ho visto le ombre di Bruk e di Marta, la sua aiutante, allontanarsi nel buio una volta che tutto era finito in cucina. Si sono seduti su una pietra e, per un po’ di tempo, li ho sentiti parlare con leggerezza.

Fatuma e il porridge

Invitate questi cuochi d’Africa a SlowFood, vi prego. Applausi e un inchino per Bruk e i suoi colleghi.
Di ritorno dalla Dancalia, 21 dicembre


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