mercoledì 12 dicembre 2012

Dancalia/4. La tranquillità della polvere, del fuoco e dell'acqua


La radura del'acacia

 Conoscere i propri passi. Il ritmo della discesa dal vulcano. Mi rendo conto della mia assurda normalità in questo luogo estremo. In queste frontiera del mondo. E’ vero: l’Erta Ale è assopito, non si scuote nemmeno per un saluto. Sono io che mi inchino alla sua indifferenza. So che sorveglia i nostri movimenti.

'Padre e figlio'

Ibrahim, la giovane guida

I nostri passi sono svelti. I cammelli sono partiti prima dell’alba, una radio gracchia da qualche parte, gli scout avevano voglia di tornarsene a casa. A loro non piace stare quassù. Non capiscono.
La nostra acacia è ancora al centro della radura. Solitaria, tenace, dal tronco bianco-latte. Questa volta non passo a salutarla. Basta un cenno del capo. Mi fermo invece ai tre hornitos. Ai tre fratelli, ai guardiani della notte. Mi piace la loro antica ostinazione: ci hanno provato a diventare vulcani. Ora so che si chiamano abakè berà, ‘padre e figlio’. Ci giro attorno, Ibrahim compie gli stessi gesti che ho visto fare alle guide che lo hanno preceduto. Si siede, si aggiusta la futà e aspetta. Guarda questi strani turisti che si arrampicano su questi piccoli vulcani. So che c’è un sentiero che da qui torna fino alla piana di Dodom. Nemmeno questa volta convinco la guida a portarmici. Gli afar sono pigramente conservatori. Il vulcano, alle nostre spalle, si nuovamente reso invisibile. Attende nuovi ospiti e si nasconde. Tranquillità del fuoco. Noi non siamo stati da nessuna parte.

I nostri rifiuti


Così non è. Qualcosa ricorda i giorni passati. I nostri rifiuti, sacchi pieni di bottiglia di plastica, sono rimasti sul bordo della caldera. I cammelli erano già partiti nella notte. Non c'era modo di portarli via. Mi rassicurano: ‘Li bruceremo’. Un ragazzo mi chiede un fiammifero. Lo guardo sconsolato. Avevamo raccolto due sacchi anche nel vulcano. Rimangono qua. Diverranno chiazze blu sulla lava. Gli afar, ne sono certo, non ci vedono nulla di male. Le bottiglie di highland sul vulcano sono un problema occidentale. La plastica non è stata inventata in Africa. I turisti le portano fino a qua, devono portarsele via. Insostenibilità dell'homo turisticus.

Gli alberi dell'Erta Ale



Una vecchia colata sbarra l’ultimo orizzonte. So che quando la scavalcheremo, un raggio di sole rimbalzerà sul parabrezza delle nostre auto. Tre ore di cammino, hai voglia di vederlo questo riflesso. Ecco, il campo base. Askoma Bahari, la ‘base della montagna rossa’. Credo che questa traduzione se la siano inventata di sana pianta. Noi abbiamo bisogno di nomi. Quando ho chiesto come si chiama il wadi di Karsawaad mi è stato risposto: daarà, ‘fiume’. Ecco le due acacie, le capanne, la ferita della radura creata dalla ruspe per accogliere gli stranieri. Gli ultimi passi sono nella sabbia della cenere. Girano soldi ad askoma bahari: vengono pagate le guide, gli scout, i soldati. ‘Non si finisce mai di pagare’.

La piana di Dodom


Sorgono nuovi villaggi nella piana di Dodom. Questa volta viaggiamo ai confini fra polvere e lava. Nuovi insediamenti. Clan di formano e si separano. Nuovi matrimoni. Villaggi familiari. Siamo fortunati. Niente vento. Fango secco. Dodom è un postaccio. Ma deve esserci acqua da queste parti. Gli afar hanno scelto di vivere in questa desolazione. Sanno che qui ci sono risorse. Affrontano vento e polvere, fango e alluvioni. Pascolano vacche magrissime. Deve essere piovuto molto nell’estate appena passata. Ci sono piccole praterie. Non ci fermiamo. Nessun insabbiamento. Le macchine fanno slalom fra ciuffi di vegetazione e piccoli spiriti di terra bianca. Tranquillità della polvere.

L'oasi di Waideddu

Osman Darolar


A Waideddu, ‘l’oasi delle gazzelle’, la palme dum stanno maturando i propri frutti. E’ stagione di raccolto. Raccolto povero: non danno soddisfazione allo stomaco questi frutti. Un tempo, dal loro nocciolo, gli italiani ci ricavavano bottoni. Si avvicinano ragazzini. Come sempre, stanno lì a guardarci. Passa un vecchio dalla barba rossa di hennè. Sta lì, in silenzio, in piedi. Ci guarda anche lui. Non dice una parola. Si stanca e se ne va. Gli vado dietro: si chiama Osman Darolar. Dice di essere il capo di Waideddu. Fine della conversazione. Ma, per un po’, ci teniamo per mano. Non ci guardiamo negli occhi. I ragazzini mangiano la polpa filamentosa dei frutti della palma dum.

Le acque del Saba River

Passare il Saba

Passare il Saba

Passare il Saba


E’ piovuto in Tigray. Meno di due giorni fa. L’acqua sta arrivando adesso nella conca dancala. Ha preso velocità, è diventata marea, onda, allagamento. Ha rotto argini che non ci sono. Rash rallenta, è stupito. Forse spaventato. So che già una volta qui si è impantanato ed è stato guaio serio. Bruck, il cuoco, è già passato. In piedi con una vanga sull’altra sponda, fa grandi gesti della mano. L’acqua cresce, corre, trascina. Rash rompe gli indugi. Si fida. Entriamo dentro con forza. Le ruote fanno presa, il fondo del wadi non è ancora fanghiglia. L’acqua sbatte contro la portiera. Ma la macchina è potente. Passiamo tutti. Quasi con rabbia. Il Saba river continua a crescere. Si allarga a delta, alimenta il lago As Sale. Cerca di trasformarsi in mare. Non ci riuscirà. Ma l'acqua non è stata così tranquilla. Per stemperare la tensione facciamo una foto di gruppo.

Arrivo ad Ahmed Ela. Molti anni fa

Affilare la godmà, la piccozza degli intagliatori del sale

Aisha intreccia le stuoie

I ragazzi di Ahmed Ela

Negozio ad Ahmed Ela

Lo spaccio di Ahmed Ela


Ahmed Ela, ‘il pozzo di Ahmed’. Ci sono i camion delle compagnie minerarire, l’antenna dei cellurari, il rombo dei generatori, l’accampamento dei militari. Noto le differenze, i cambiamenti. Mi piace Ahmed Ela. Abbiamo la stessa capanna. Oramai è ai bordi della strada sulla quale transitano i camion. Ci sono perfino i pulmini ad Ahmed Ela. I ragazzi, al solito arrivano con i letti sopra la testa. La macchina dell’ospitalità si mette in moto per default. Letti volanti escono dalle burra afar e si mettono in fila di fronte alla nostra casa. Prendiamo le misure del villaggio. Viavai di gente che sa del nostro arrivo. Vengono a salutare. Le dagu, le notizie arrivano veloci. Viene Alì, passa Fatuma, sempre più bella, ecco l'altro Alì che ripete il suo italiano come una litania rotta. Perfino Hussein viene a trovarci. Ne sono lusingato. Mi dice: 'Non lavoro più per gli indiani, ora faccio il manager di Ahmed Ela'. Lo so: la Bhp, compagnia indiana, ha ceduto i suoi diritti minerari ai canadesi. Land-grabbing del potassio.

City-tour: il grande bar dei tigrini con le sue donne, il costruttore di letti, gli hedelè che affilano la piccola e pesante piccozza con la quale taglieranno il sale, la madrasa, la moschea in pietra. Il pozzo, le donne con gli asini che scendono la leggera scarpata e caracollano sui ciottoli. Le ragazze che uniscono le ciglia con un tratto di matita. Ecco Aisha, ecco Dini, ecco Medina. Sorridono e le due donne continuano a intrecciare foglie di palme. Non le ho mai viste con le mani ferme. Mi siedo accanto alla nonna. E’ venuta a vivere con il clan famigliare. In una capanna gli uomini ruminano chat. Mi tolgo le scarpe. So che arriverà il tè. Ecco, sono a casa.
Ahmed Ela, 30 novembre


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