lunedì 24 dicembre 2012

Dancalia/7. E qui la storia finisce




Alì e il suo 'giardino'


Ai confini della Piana del Sala c’è un solo contadino. Gli afar non coltivano la terra. Sono mandriani e pastori. Non amano seminare, non vogliono star chini su una piantina, non amano raccogliere. Alì è solo. Con la sua numerosa famiglia: dodici figli. Il più piccolo ha tre anni, il più grande 22. Una sola moglie. Ho sempre guardato con curiosità il suo piccolo campo. Mi ha sempre sorpreso quel verde intenso in una terra che non conosce queste colore. I suoi campi sono sull'ultima sponda del Saba River, un rettangolo di sorgo, un boschetto di palme, alcuni olivastri, piccoli orti. Due vacche. Una volta comprai da Alì un cocomero. Era buonissimo. 
Alì ha un dento d’oro. Se lo fece mettere quando andò a vivere in Arabia Saudita. Allora fuggiva dalle guerre dell’Etiopia. Accadeva molti anni fa. Appena possibile tornò alle sue campagne ai margini di un deserto dove non cresce nemmeno un filo d’erba. Non sa perché fa il contadino, Alì. Lo faceva suo nonno. E poi suo padre. Dice che il terreno fu un dono del negus Hailè Selassiè in persona.

Ali è il suo dente d'oro
Lui non si è chiesto ragioni del suo destino. Ha preso in mano una vanga e ha cominciato a zappare.
Alì, oggi, è un uomo fortunato. Le compagnie minerarie, i costruttori di strade sono arrivati a spezzare la solitudine della Dancalia. Hanno bisogno di cibo. E’ Alì a rifornirli delle verdure fresche. Non riesce a soddisfare tutta la domanda.
Alì ha un solo cruccio: nessuno gli vuole dare una mano. Un afar non coltiva la terra.

Incrocio di carovane nel canyon

Risaliamo verso l’altopiano a piedi. Camminiamo, ancora una volta, nel canyon scavato dal fiume Saba. Un passo dopo l’altro. Anni fa, facemmo questo percorso nel senso contrario. Non sapevamo dove saremmo finiti. E' un ricordo di nostalgie. E’ qualcosa che non dimenticheremo, ci sembrò di aprire una nuova strada. Da allora, ogni volta, vogliamo ripercorrere una nostra storia. Che è storia di altri.

Zinabu

Cammellieri

Le otri di Berhale


Zinabu, cammelliere tigrino, impasta la farina e ne fa una palla. Il suo amico arroventa pietre del fiume. Quante volte ho visto compiere questi gesti? Sempre uguali. Perenni. Antichi. Faticosi. Gli accampamenti degli uomini sono sempre lì. Dietro l’angolo del canyon. Accendono fuochi, scaldano le pietre, impastano, preparano un pane duro da ammorbidire nel tè. Bagnano le corde nelle acque del Saba River. Inumidiscono le otri di pelle di capra. Impastoiano i cammelli e li sfamano con paglia e stoppie. Questo fanno da sempre. E noi passiamo davanti a loro, anche noi compiamo gli stessi riti, quelli della modernità. Le foto, una promessa, un saluto, tutto qui. Noi scegliamo di camminare nel canyon. Per loro, invece, è fatica della vita. Penso che percorro per l'ultima volta questo cammino. Ho bisogno di una diversità, di un saluto. Non chiedo, sfioro la mano di un cammelliere. E' appesa al bastone che ha sulle spalle. Con due dita tiene un cordino. E, dietro, la fila dei cammelli....lui, senza stupore, lascia andare e fa due passi in avanti....

Per un paio di chilometri...

Un carovaniere mi affida, per qualche chilometro, i suo animali. Vuole e vogliamo divertirsi. Chi ci incrocia ci guarda con sorrisi che mai ho visto in questo cammino.

Geologie del canyon

Questa volta prendo il conto del cammino. Poco meno di diciannove chilometri. Sei ore di passi che guadano il fiume. C’è un roccione sul quale sorge una casa di pietra, quasi a metà della risalita del canyon. E’ conosciuta come Forto. So che, quando avremo finito il nostro pranzo, scenderà una donna con un bambino e un thermos. Caffè per questo strano popolo di occidentali.

I diari del viaggio

Scrivono i viaggiatori. Riempiono fogli, quaderni, Moleskine, taccuini.


Melabdy

Obama davanti alla moschea

Preghiera a Melabdy

Alzabandiera alla scuolina di Melabdy

La scuolina di Melabdy

La prima classe della scuolina

La fine del cammino è un villaggio disperso. Si chiama Melabdy, ‘il luogo del miele’. In realtà gli alveari sono nel paese di Korà, qui mai ho visto il miele. Mi piace Melabdy: c’è un pozzo, una polla di acqua calda, una moschea in muratura, un bar. Non c’è elettricità. E’ questo è il cruccio di Aisha, 19 anni, giovane donna di Asayita. Viene da lontano, Aisha. Asayita è all’altro capo della Dancalia. Aisha è maestra. Ho appena finito il suo collegio e l’hanno mandata qua. Una scuolina, due classi di elementari. Banchi in disordine, un mappamondo sgonfio, una lavagna. Lasciamo quaderni e matite. Ci organizzano una ‘consegna ufficiale’. Con tanto di alzabandiera. Fila di bambini. Di età diverse. Si spingono nell’aula.

Occidente e Africa. Dai bagagli diversi

Viaggiatori pesanti, gli occidentali. La mia valigia, le mie valige e quelle degli scout.

La figlia di Mohamed e la culla di Abdu

Mohamed Tchai Tchai e i suoi nipoti

Il viaggio finisce al bar di Mohamed Tchai Tchai. E’ un’abitudine. Anni fa tutto cominciò da Mohamed. Ci apparve al mattino lungo questo cammino, allora a noi sconosciuto, che ci avrebbe portato la prima volta in Dancalia. Mohamed è un barista. Ci offrì in tazzine di plastica macchiate di nero il più buon tè della nostra vita. Da allora, ogni volta che passo di qui, vado a trovarlo. Anche questa volta. Il bar è sempre sotto l’acacia. Ha comprato tazzine nuove. Ha spostato le sue capanne sulla collina. Ha fatto un microvillaggio familiare. Ha un nuovo nipote. Abdu. E’ nato da una settimana.
Mohamed ha nuovamente i capelli lunghi. Sembra un vecchio hippie. Il suo sorriso è smagliante. Lo abbraccio e ne sento le ossa. Ho le lacrime agli occhi. E mi viene voglia da ridere. Appoggio la mia testa sulla sua spalla. Non faccio nemmeno una foto.
Il cammino finisce qui. La Dancalia finisce qui.
Saba River, 3 dicembre

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