sabato 28 maggio 2011

Il ministro Frattini e il qaid Gheddafi

                                                            (Foto da La Stampa)

Incontri casuali sul web. Ecco, mi sono riapparse vecchie interviste al ministro degli esteri italiano Franco Frattini. Magari sono più che conosciute, ma a volte non c'è sorpresa maggiore di quanto è così detto e ridetto, letto e riletto. E poi dimenticato nell’oceano delle notizie, delle chiacchiere vane, nella superficialità.
Le parole hanno un significato?

Settembre 2010, sei mesi fa. Intervista alla Stampa. Gheddafi è passato come un uragano da Roma e il ministro vuole rassicurare. E' orgoglioso dei rapporti fra l'Italia e la Libia e schernisce il 'disappunto' inglese per questa relazione privilegiata. Ecco cosa dice, a leggere le sue parole fra virgolette

«I rapporti che l’Italia ha con Gheddafi non li ha nessun altro Paese. Leggendo i giornali inglesi si vede quanto sia il disappunto perché l’Italia ha soppiantato la City londinese in Libia. L’Europa ci chiama a mediare per liberare eritrei dai campi di custodia nel deserto libico come quando ci sono cittadini bloccati a Tripoli. Quanto alle ragazze, io so dalla figlia di un mio amico fraterno, che per un caso era lì, che Gheddafi ha parlato di un Islam che deve essere europeo, non di un’Europa da islamizzare. Sa qual è il problema? In Italia c’è un atteggiamento da colonialismo di ritorno, e invece Gheddafi è un leader arabo, il presidente dell’Unione Africana, un politico capace di mettere un proprio collaboratore a presiedere l’assemblea dell’Onu. E va in giro per l’Africa a dire che l’Italia è l’unico Paese che ha superato il colonialismo. Sa questo quante porte apre in Africa?». 

Gennaio di quest'anno. Le rivoluzioni arabe sono già scoppiate. Ben Alì se ne è andato, Mubarak vacilla. E Gheddafi, per il ministro Frattini, è l’esempio da seguire. Al punto il Corriere azzarda questo titolo: 'Frattini indica Gheddafi come modello per il mondo arabo'. Il ministro scopre la 'democrazia popolare' del qaid libico: «Faccio l' esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama "dei Congressi provinciali del popolo": distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia. Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta. Per me sono segnali positivi».

Chissà se il ministro Frattini ricorda queste parole.

Padova, 27 maggio


giovedì 26 maggio 2011

Primavera a San Silvestro. Con strani pensieri sui minatori e sulla guerra


La Valle dei Manienti a San Silvestro


La primavera è già diventata estate. I colori si sfiancano, stanno perdendoo smalto e vigore. Affrontano la prima, pigra stanchezza. Il cielo ha l’aria già affaticata. Ma la baracca dei cocomeri della Certosa ha aperto la sua stagione, prova inequivocabile dell’arrivo dei giorni del caldo.

Da mesi sto lavorando in un parco dell’Alta Maremma. Parco archeominerario. Luogo di grande bellezza. A un passo da Campiglia Marittima. La storia mineraria si intreccia con una natura splendida. In questa terra, si chiama San Silvestro, gli uomini, fin dai tempi degli etruschi, hanno cercato di impossessarsi delle ricchezze del sottosuolo. Zinco, piombo, rame, argento. Hanno cambiato la geografia, i minatori. Sono sprofondati sottoterra per quanto hanno potuto. E’ stata una storia lunga duemila e più anni. Le ultime miniere hanno chiuso quasi quaranta anni fa. E’ rimasta la bellezza, figlia di questa immensa fatica.

In realtà, queste colline a ridosso del mare non hanno ancora conosciuto una vera pace. Ci sono ancora cave che tagliano a fette le montagne. Il parco è accerchiato.

Un papavero fra le scorie della miniera novecentesca


Il mio è un lavoro da privilegio. Cammino al mattino. Percorro i sentieri del parco. Registro la mia voce. Seguo una piccola mappa. A volte ho qualche dubbio di fronte a un bivio. Nei file delle registrazione si sentono rumori che nemmeno i miei orecchi, distratti, hanno avvertito: un fruscio di vento, il ghiaino che scricchiola sotto i miei passi, un chiacchiericcio lontano.
Nel pomeriggio ascolto le registrazioni e scrivo. Lavoro fino a tardi. Fuori della casa che mi ospita ci sono decine di gatti che appaiono solo a notte. A volte, qualche amico mi invita a cena. La mia casa è solitaria. Il parco a sera è un deserto. Ci sono solo i gatti e, lontano, l’abbaio di qualche cane chiuso in un recinto. Sono stato qui anche in inverno e cercavo di ignorare i brividi di paura nella notte. Sto bene a San Silvestro.

Il vecchio villaggio minerario inglese della Etruscan Mines
Racconto questo perché, alla fine, questo parco, così amato dagli archeologi e dai naturalisti, ha i suoi ‘non detti’. Noi oggi vediamo la sua sfolgorante bellezza, ammiriamo le rovine di una rocca medioevale, villaggio di minatori del 1200. Ma San Silvestro è una storia di lavoro, di fatica buia, di dolore, di soldi, di morte, di avidità. E’ la storia di una miniera. E nelle miniere si muore. Si muore di lavoro. Mi è venuto in mente che è giusto ricordarlo anche quando si cammina nella bellezza dei giorni nostri (come ci sarebbe apparso questo posto se ci fossimo capitati quando ancora ardevano le fonderie?).. Molti minatori sono morti senza lasciare memoria nelle cronache. Uomini perduti, uomini svaniti. Leggendo le vecchi storie ho trovato questi nomi: Alfredo e Francesco Lagotti, Fioravante Giuntini e Domenico Maccanti, l’ingegner Crowster e l’operaio Gavazzi, Francesco Gori e Luigi Lippi, Primo e Ranieri Lazzerini. Mi raccontano di un camionista delle cave rotolano giù fra gli sterpi non molto tempo fa. Non ne ricordano il nome. Ecco, vorrei che qualcosa ricordasse il passaggio di questi minatori fra le colline di San Silvestro. Vorrei che ci fosse memoria.

E ancora. Mi libero dei pensieri, scrivendoli. Alle miniere di San Silvestro capisco ancor più le ragioni delle guerre. Follow the money e troverai chi sulle guerre guadagna. Erano i primi del ‘900 e il mondo doveva già essere globalizzato. A Londra, quattro gentlemen avevano saputo che in quelle miniere della lontana Toscana si trovava rame. E con il rame si fa l’ottone. E con l’ottone si fanno i bossoli delle munizioni. E nel 1899 era scoppiata, in Sudafrica, la guerra anglo-boera. Triangolazione ardita: Londra (Queen Victoria Street)-Campiglia Marittima (le colline di San Silvestro)-Sudafrica (i campi di battaglia di una guerra assurda). Il prezzo del rame si impenna e gli inglesi decidono di aprire le miniere fra le quali sto camminando.
La Rocca San Silvestro
Guerra troppo breve, peccato. Inglesi e boeri smettono di massacrarsi nel 1902. Il prezzo del rame si dimezza. Gli inglesi sperano nella nuova guerra fra Giappone e Russia per il controllo della Manciuria. I prezzi risalgono ancora. Finchè c’è guerra c’è speranza. Per trafficanti di armi, tycoon del primo Novecento, in fondo, diciamocelo, anche per i minatori di Campiglia che altrimenti rimarrebbero contadini affamati e ammalati di malaria. Ma, una volta tanto hanno sbagliato i conti, nemmeno la Manciuria riesce a salvare i denari degli inglesi. Se ne vanno dalla Maremma e, alle loro spalle, lasciano un po’ di morti e mille e cinquecento contadini che si erano ritrovati a fare gli operai. 

Insomma, vorrei che la bellezza di San Silvestro non fosse turbata. Però questi pensieri di minatori e di guerra, mi sono venuti in mente. Forse, è possibile godersi una bellezza, consapevole che non è solo punto di vista possibile. Continuo a camminare.
San Silvestro, un giorno di maggio




martedì 24 maggio 2011

24 maggio. Venti anni fa, l'Eritrea era libera. In ricordo di Stefano Poscia

Stefano, 24 maggio 1993. Al voto al referendum sull'indipendenza dell'Eritrea (foto Mario Boccia) 

24 maggio 1991. I partigiani della più lunga guerra di liberazione africana entrano ad Asmara. Era accaduto l'impossibile: un piccolo paese aveva vinto la sua libertà. Contro tutto e contro tutti. 
Questa storia non è finita bene. L'illusione della pace e di una nuova Africa è svanita in pochi anni. Oggi l'Eritrea ci appare come un paese cupo. Dove i fratelli uccidono i fratelli. E da dove i giovani fuggono in cerca di quella libertà per la quale i loro padri avevano lottato.
Non di questo voglio parlare. Oggi, vent'anni dopo un giorno di felicità immensa per noi che avevamo seguito la storie di quella guerra, voglio ricordare Stefano Poscia, il giornalista che meglio di altri seppe raccontare quel paese e il suo popolo. 
Lo faccio con le foto che scattò, nel 1993, in un altro giorno di maggio, Mario Boccia. A Stefano era stato riconosciuto un grande onore: il governo della nuova Eritrea gli aveva riconosciuto la cittadinanza di quel paese per il quale Stefano aveva tanto dato: aveva il diritto di votare al referendum per 'indipendenza del suo paese.
Avevo scritto queste parole un mese dopo la morte di Stefano. Ero in Argentina e fu un'amica comune ad avvertirmi. Questa pagina è stata pubblicata, purtroppo solo come lettera. dalla rivista Nigrizia. 

Sono già passati molti mesi da quando è morto Stefano Poscia. Io l’ho saputo molte settimane dopo. Non sapevo nemmeno che era malato da un anno. Un’amica degli anni dell’Eritrea mi ha scritto da lontano: ‘Una brutta notizia….’. E solo allora mi sono accorto che erano dieci anni che non ci vedevamo. L’ultima volta fu, naturalmente, ad Asmara. Nel 2000. Stefano era stato inviato dall’Ansa nel ‘suo’  paese (ne aveva la cittadinanza. Aveva votato al referendum per l’indipendenza nel 1993) e io ero un giornalista senza giornale, intruso nel tragico finale di una speranza africana (si combatteva allora la più stupida e oscena delle guerre, ancora una volta fra Etiopia ed Eritrea).

(foto di Mario Boccia)
Un’amicizia può sfidare il tempo e le assenze? Bruna mi ha scritto dal Sudan mentre ero in Argentina e nemmeno sapevo che Stefano, negli ultimi tempi, era il responsabile Ansa da Buenos Aires, per il Latinoamerica. Quanto tempo, davvero. Eppure c’è, c’è sempre stata, una sorta di patto di fratellanza fra coloro che hanno avuto la ventura di vivere gli anni duri della guerra di liberazione dell’Eritrea e quelli entusiasmanti della sua prima libertà. Stefano era ‘diverso’ da tutti noi che cercavamo di raccontare l’Eritrea rimanendo al riparo del nostro mestiere. Lui aveva vissuto in quel paese, aveva trascorso mesi e mesi, in tempi difficili, nelle regione liberate, nelle montagne dei partigiani. Aveva studiato, con il suo puntiglio spigoloso, la lingua (parlava perfettamente il tigrino). Ricordo benissimo, nella Nigrizia diretta da Alex Zanotelli, il suo prezioso dossier su quella guerra di cui nessuno voleva né parlare, né sapere (fu questa nostra rivista a spezzare il silenzio che accerchiava gli eritrei). Stefano, in quei mesi lontani, scrisse anche il libro (‘Eritrea, colonia tradita’, Edizioni Associate, 1989) che, per tutti noi, divenne il riferimento indispensabile per conoscere quel paese, quella gente e la loro lotta disperata. Stefano era stato generoso: a ognuno di noi, a suo modo, sapeva dare il consiglio giusto per come muoversi nel paese, sapeva dare il contatto che cercavamo, dava le tracce della pista da seguire. E’ stato un giornalista ‘bianco’ che ha saputo raccontare, con la sua precisione orgogliosa (aveva un carattere simile a quello dei migliori eritrei: gente testarda, cocciuta, profonda), la storia di un popolo africano. Non è da tutti, a pochissimi è riuscito. Perché, in Africa, bisognerebbe essere capaci di cambiare i nostri ‘punti di vista’ e quasi mai ci si riesce. A Stefano, credo che sia riuscito.

Due ricordi: anni ’80, seduto a un tavolo della Fondazione Basso, Stefano, elegante come sempre, correggva le bozze del suo libro. Deve aver fatto ammattire gli editori: c’era sempre una correzione, un precisione da fare. Un’altra immagine: un ristorante di Atene, un convegno internazionale, Stefano è seduto al tavolo con Andemichael Khasai e, con un’espressione felice, parla, parla (lui sempre molto silenzioso) con quell’eritreo alto e attento. Una conversazione in tigrino. Andemichael (diverrà sindaco di Asmara dopo la liberazione, anche lui non c’è più) lo guarda e con un alzata di sopracciglio (gesto tipico di un eritreo) dice: ‘Sei bravo, Stefano’.

Ad Asmara, in quell’orribile anno 2000, ci incontrammo sulla porta di un albergo. Era bello rivedersi anche se quegli erano giorni di dolore per un sogno che si spezzava. Stefano era inquieto, lui, più di noi, sapeva cosa stava accadendo fra i vecchi compagni della guerra di liberazione. Ma ricordo benissimo che Stefano mi salutò offrendomi la sua spalla, il saluto degli eritrei. Lo fece con naturalezza. E io non ero eritreo. Per me fu un segno di complicità. Di cui solo ora, troppo tardi, voglio ringraziarti.
Scritto a Cordoba, molti mesi fa.  

domenica 22 maggio 2011

E se l'etica fosse anche gioia....

Cecità



Complimenti al Gruppo Fotografico Immagine di Lodi. Bella la storia del Festival della Fotografia Etica. Belle le mostre. Eugene Richards, Simona Ghizzoni, Stefano De Luigi e Fausto Podavini: bravi fotografi, loro i progetti principali.
Una sorpresa, per noi che venivamo da sotto gli Appennini, è la città di Lodi. Piacevole, solare in un giorno di primavera, gentile. E’ stato bello camminare di mostra in mostra. Scoprendo chiese e palazzi. Luogo dove tornare. Per cancellare lo stereotipo che abbiamo delle cittadine padane e per essere smentiti sul leghismo imperante (città multietnica, a passeggiarci, Lodi. E in chiesa c’era persino un manifesto che invitava al dialogo con divorziati, separati e risposati. Mi parlano benissimo della giunta della città).

Confesso: siamo saliti fino a Lodi incuriositi da quella parola: etica? Cosa sarà mai la ‘fotografia etica?’. Ricordo che a Milano, alla fiera Fà la Cosa Giusta’, mi scattarono un ‘ritratto etico’.  Rimasi perplesso.

Siamo tornati contenti da Lodi. Ma con un dubbio in testa. Le principali mostre fotografiche di Lodi di ruotavano attorno alla sofferenza. Le storie di quindici soldati americani tornati a pezzi dall’Iraq. L’anoressia. La cecità. L’alzheimer. No, non si torna allegri da Lodi. O meglio: il confronto è fra la bellezza e la piacevolezza di un giorno a viaggiare per mostre e gli argomenti di queste mostre. Il dubbio è: l’etica deve per forza ruotare attorno alle disgrazie, al dolore, alla pena? Mi dicono che all’edizione precedente la mostra principale era su Chenobyl. Insomma, l’etica ha una vocazione alla sofferenza? Chi vuole essere ‘etico’ deve per forza occuparsi di dolore?

Alzheimer


Domanda: l’etica può raccontare la felicità, la gioia, la soddisfazione? Sono appena tornata da una sera di musiche e tramonti, birra e balli. Gente felice. A TerraFutura, fiera fiorentina della Buone Pratiche. La fotografia può raccontare momenti di serenità? E’ possibile narrare, per immagini e per parole, la vita quotidiana di una famiglia che si vive con tranquillità i suoi giorni? E’ possibile fotografare eticamente la soddisfazione di una bella giornata o di una vita normale? O, per forza, bisogna raccontare la fatica di ogni giorno di chi vive accanto a un malato di alzheimer? E’ possibile narrare una gioia pacifica senza cadere nell’effetto Mulino Bianco?

Una sfida per gli amici del Festival di Lodi: l’anno prossimo, etica e felicità. Meglio: etica e gioia. Ancora: etica e vita tranquilla.
San Casciano, 22 maggio 

venerdì 20 maggio 2011

Viaggio in Erzegovina

Alcune foto della mostra fotografica (foto di Mario Boccia e Andrea Semplici) attorno ai contadini e ai cibi dell'Erzegovina. La mostra è a TerraFutura, fiera delle Buone Pratiche. 20-22 maggio, alla Fortezza da Basso di Firenze.

Sabato 21 maggio, alle ore 13, nello spazio della Regione Toscana viene presentato il libro 'Viaggio in Erzegovina'. Io e Mario siamo lì. Possiamo raccontarvi di queste foto.


Oskorusa, le sorbe sul tavolo di Nedo

Gospava nella sua vecchia cucina. La pentola dei fagioli poljack

Le api di Milivoje a Bobovista

La famiglia di Zdranko e Dragana a Ivanica. Producono il formaggio che scricchiola

Il formaggio Kajamk di Slavica

L'ospitalità della famiglia Kulic a  Nevesinje

ps: un 'gioco' che non è politically correct e, forse, è anche po' retorico. Da provare di fronte alle foto della piccola mostra. Capire chi è croato, chi serbo e chi bosniaco. E poi pensare alla follia di chi vuole dividere e spezzare. Nella terre degli Slavi del Sud come in Italia, in Libia come ovunque nel mondo.

mercoledì 18 maggio 2011

Viaggio in Erzegovina

I chicchi del melograno e le mani di Smajo (foto di Mario Boccia)

Venerdì 19 maggio, a Firenze, alla Fortezza da Basso, si apre TerraFutura, fiera delle buone pratiche. Ci sarà spazio per la piccola mostra fotografica 'Viaggio in Erzegovina'. Foto mie e di Mario Boccia. E' il tentativo di raccontare la storia dei contadini dei valloni attorno alla Neretva. La mostra fotografica è figlia di un libro: Mario Boccia/Andrea Semplici Viaggio in Erzegovina, storie di cibi e contadini ed. Okusi Herzegovina, OxfamItalia, BuyBook. Il libro sarà presentato sabato 20 maggio alle ore 13

Un bel viaggio. In Erzegovina. Nome aggrovigliato per la terra di Mostar, per le vallate scavate dalle acque color smeraldo della Neretva. Un viaggio a cercare e scoprire che la tenacia dei contadini e la cultura del cibo sono più resistenti della follia degli uomini. Alla fine ne è uscito un piccolo libro. Un racconto che racchiude le storie di allevatori, casari, pastori, contadini, apicoltori, gente che, ostinatamente, ripianta ciliegi e fiche fra le pietre della loro terra. E’ stato davvero un bel viaggio.  

Il cibo diventa cultura quando entra in rapporto con uno spazio. Lo ha scritto il grande scrittore catalano Manuel Vazquez Montalban. In Erzegovina, come altrove, più che altrove, il cibo è la cultura di una terra e non conosce, lo si voglia o meno, steccati e divisioni. La guerra degli anni ’90 appare ancor più oscena e insensata se si pensa al cibo. La gente dei Balcani si inebria di slijvovica, Ivo Andric ricorda i vini rossi di Mostar e i riflessi di una coppa di zilavka sorseggiata sulle sponde della Neretva. Gli agronomi austroungarici hanno insegnato a fare un buon vino a contadini dell’Erzegovina. Un casaro francese ha vissuto un quarto di secolo nel freddo altopiano di Livno lasciando in eredità sapienti tecnologie di un formaggio alpino. In nessuna casa erzegovinese si comincia un pranzo senza un piattino di kajmak, delizia del palato dalle origini turche. E i bey ottomani, golosi e buon intenditori, pretendevano tributi sotto forma di formaggio nel sacco, il formaggio che è riuscito ad affascinare perfino quei severi gourmet di Slow-Food. In una casa di Ljubuski, terra di croati, colline di Medjugorie, luogo di uno dei più affollati e discussi pellegrinaggi cattolici del mondo, abbiamo assaggiato la perfezione di una baklava inumidita di acqua e miele, squisito dolce musulmano. Abbiamo saputo di Ante, prete francescano, che, senza esitazioni, chiese consiglio ai suoi fratelli ortodossi, molto più esperti di lui sul tema, per sapere dove comprare il miglior formaggio nel sacco. Oggi, Ante, ogni settimana, sale fino alle montagne di Nevesinje, terra di serbi, pur di portare sulla tavole del suo convento questo formaggio dal sapore tosto. Il miglior artigiano del prosciutto dell’Erzegovina occidentale va fino ai confini della Bosnia, nella regione serba, per comprare le cosce di maiale più buone. Zdenko, contadino croato, ha ricominciato a piantare i suoi ciliegi attorno all’ago sottile e bello di un minareto. Enver, agronomo musulmano a Stolac, ci ha condotto ad ammirare il sorbo centenario sul terreno di un vecchio contadino serbo: assieme, attorno a un tavolo minuscolo, abbiamo assaporato la strana dolcezza delle sorbe. Il cibo dei cristiani e il cibo dei musulmani si confonde, smarrisce e ritrova identità, diventa figlio di un’unica storia e di una sola cultura. Quella dell’umanità. Una cultura sensibile e golosa: sa riconoscere ed apprezzare la bontà, è orgogliosa di cucinare il pane per i suoi vicini e di distillare grappa per accogliere gli ospiti che verranno. Il cibo può affratellare, unire attorno allo stesso tavolo.
San Casciano, 18 maggio 




sabato 14 maggio 2011

Letture in cerchio. Guerra. Guardare negli occhi il nemico

Dopo la battaglia di Adi Kwala, Eritrea, giugno 2000



Emilio Lussu, nelle trincee della prima guerra mondiale, non sparò. Non vi riuscì. Ufficiale, militare, interventista, Lussu sta per sparare, i suoi occhi sono dentro il mirino. Ma il nemico, improvvisamente, diventa un uomo. Sta per accendersi una sigaretta. E’ appena passata la marmitta del caffè. E' mattina di un nuovo giorno. Questa non è guerra, scrive Lussu. E’ un omicidio. Il nemico è un uomo. L’ufficiale italiano ne incrocia gli occhi, ne intravede il tratti del viso. ‘Io non sparo’ e striscia via nella sua trincea. C'è un caffé anche per lui.

Sapete bene che non andò così bene a Piero. Anche lui scorge il nemico nella trincea opposta alla sua. Anche lui vede un uomo. E non vuole ucciderlo, non vuole vederlo morire. La paura è più forte della sua generosità. Della sua umanità. Quell’uomo, con 'una divisa di un altro colore', si accorge di essere nel mirino di Piero. Ha paura. E ‘imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia’. Piero non avrà la fortuna di Emilio Lussu. Non potrà raccontare della sua incertezza e del coraggio di non sparare. Piero morirà di maggio.

Gli occhi di un pilota di aereo, decollato da Trapani o da una portaerei nel Mediterraneo (sotto casa, insomma), non vedranno mai il viso dei soldati e dei civili (ditemi, per favore, chi è civile e chi no in Libia. Sono tutti armati), non potranno mai osservare l’espressione, la curva della bocca, i gesti delle mani mentre preparano il tè di chi stanno per uccidere. I bombardamenti in Iraq erano guidati da basi di comando che stavano in Florida. Questa non è guerra, è videogame. Sono geometrie su uno schermo. Non ci saranno cantori perchè non ci saranno Termopili o assedi a Los Alamos. Le guerre, oggi, sono asimmetriche. In Libia non c’è più niente da bombardare. Ci sono solo case, moschee, persone, donne, bambini. C’è solo da disseminare paura, strategia per far mancare qualsiasi appoggio al nemico (un dittatore che fu nostro, carissimo amico). I civili stanno nel conto. Non sono 'danni collaterali': in Libia, a Gaza, in Cecenia, in Afghanistan sono obiettivi.

Chi ha una superiorità schiacciante non può aver alcuna giustificazione. Quando chi spara ha la sicurezza di non essere colpito, non sono possibili errori: il pilota centra il bersaglio che gli ordini gli hanno imposto di distruggere. Non è uno sbaglio. E il pilota non potrà mai essere sorpreso dai suoi pensieri come l’ufficiale Lussu. Non vedrà mai Mohamed accendersi una sigaretta. I bambini uccisi a Tripoli, per lui, non sono di carne, occhi, pianti, giochi: sono immagini virtuali di un computer. Chi spara per i vicoli di Misurata, oramai lo fa a caso: una sventagliata di kalashnikov senza nemmeno vedere dove sono finiti quei colpi. Le guerre non possono più essere vendute come coraggio. Non possiamo aspettarci nessuna pietà, nessun ripensamento, nessuna umanità da un pilota d’aereo.

Ci è capitato, in una notte di guerra a Nablus, di finire nelle mani dell’esercito israeliano. Per una notte siamo stati sequestrati dai soldati di Tzahal, le forze di difesa (difesa?) di Tel Aviv. Fucili mitragliatori puntati su di noi. Prigionieri. Mentre fuori dalle mura nella stanza in cui eravamo rinchiusi si combatteva. Adesso, a tre anni di distanza, ricordo i ragazzi (i soldati sono gente giovane, sono uomini giovani, sono i tuoi figli, gli amici di tuoi figli, viaggiano in autostop) che stavano decidendo della nostra vita. Erano travestiti da Rambo, sembravano immensi. Però sudavano, puzzavano di fatica, di ansia, di bibite gassate. Di paura. Erano pallidi. I loro occhi si muovevano di continuo. Azzardo? Erano più spaventati di noi. In fondo eravamo in territori palestinesi. A loro volta, loro si sentivano prigionieri.
 Ricordo benissimo, dopo una notte di guerra, quando vollero andarsene. Ci obbligarono a uscire davanti a loro. Ci trasformarono in scudi umani. In quei momenti azzeri in pensieri. C’è da fare una cosa e la fai. Non so per quale ragione, guardai negli occhi il ragazzo che mi dava ordini. Potrei giurare che stava tremando. Aveva guanti neri che lasciavano scoperte le dita. Il fucile doveva essere pesantissimo, lo appoggiava a terra di continuo. Lo guardai davvero negli occhi e con un gesto d’istinto gli detti la mano. Lui ebbe un sobbalzo di sorpresa. Non se lo aspettava. Quasi si ritrasse. Ma, anche lui, ebbe un istinto. Accettò la mia stretta di mano. La sua (e sicuramente anche la mia) era umida, quasi bagnata dal sudore, molle, unta, forse addirittura tremolante. Non ci saremmo mai più rivisti. Ma, per un attimo, solo per un attimo trovammo la sorpresa dell’umanità. Guardare negli occhi il nemico. Aprii la porta, feci un passo. Nessuno sparò. I soldati-ragazzi corsero via lungo le scale.
San Casciano, 12 maggio

A Torino, allo Spazio Opi, proseguono le 'letture in cerchio' dalle quali sono nati questi pensieri sulla guerra. Lunedì prossimo, 16 maggio, letture e parole attorno alla paura. Per saperne di più: www.paroleattorno.wordpress.com 



sabato 7 maggio 2011

Primavera a Mostar

Pescare sotto il Vecchio




Volevo scrivere questo articolo. Mi sono reso conto che non vi era alcun 'luogo' dove poterlo scrivere. Le vecchie riviste di viaggi e geografie non ci sono più. Ma io io non volevo dimenticare. Da tempo, mi vengono in mente storie, che poi mi accorgo di non scrivere. Ho voluto forzarmi, questa volta.
Questo non è un post (non ne ha l'immediatezza, la brevità), è un articolo pensato e scritto come se avessi dovuto farlo per una rivista. Ho voluto farlo perché deve lasciare una traccia la bellezza che si è sistemata nei miei ricordi quando ripenso ai pochi giorni trascorsi a Mostar.


Al mattino presto, la vecchia Mostar, la città che ‘custodisce il ponte’, appartiene solo a sé stessa. I ciottoli delle strade nell’antico centro scintillano dell’umidità della notte. I passi cercano un equilibrio su questi sassi scivolosi. Cantano gli uccelli. In sottofondo, si ascoltano i gorghi della Neretva, ‘il fiume più luminoso del mondo’. Ivo Andric, il grande scrittore balcanico, figlio della Bosnia, Nobel per la letteratura, ha sempre sostenuto che nessun rumore può svegliarvi a Mostar, è la sua luce che vi fa aprire gli occhi e vi invita a vivere una nuova giornata
I turisti, peccato, non dormono a Mostar. Rimangono intrappolati negli alberghi di Medjugorje, luogo di pellegrinaggi cattolici sul filo dell’eresia. Sbagliano, i pellegrini: la meraviglia di questa città è notturna, lo stupore è nelle prime ore dell’alba e riappare al tramonto quando i raggi del sole cercano di rimanere impigliati nelle pietre del Vecchio Ponte. I turisti arriveranno più tardi, a metà mattinata, con i pullman. E sembrano non capire che il vero miracolo non sono le settimanali apparizioni della Madonna, ma la bellezza di Mostar. Arrivano a onde affrettate seguendo una guida che impugna un ombrello. La città invasa, intasata nei suoi vicoli, si rincantuccerà su sé stessa, si nasconderà e quasi si farà di lato. I mercanti si rassegneranno al loro ruolo. Bisogna pur vivere, il turismo è ricchezza (forse per pochi) a Mostar, segno (forse illusorio) della sua rinascita. Ma ora, prime ore del mattino, si può andare, con tranquillità, a prendere un caffé a un passo dal fiume. Un bosanska kafa, nel piccolo bricco di rame, con zolletta di zucchero e dolcetto orientale. C’è tempo a Mostar. In questa ora perfino i camerieri, solitamente affannati, sono lenti e gentili.
Il caffé al mattino
Hamiza ha occhi piccoli e curiosi. Giacca di velluto, camicia gialla. Per noi, ha lasciato il suo minuscolo giardino di melograni, ha abbandonato la pace della sua casa sulle prime pendici del monte Podvelez, ogni sera illuminata (ancora la luce) dal tramonto del sole. Hamiza dice che ‘non ha quarant’anni’. E’ nato quando anche la seconda guerra mondiale cominciava a essere stanca di orrori. Sorriso di malinconia: ‘Ogni mezzo secolo, dobbiamo farci la guerra nei Balcani’. Ne ha 66 di anni, Hamiza. E io lo conosco come l’uomo dei burattini. Per oltre trent’anni, fino a quando le cannonate delle milizie croate non lo cacciarono, è stato l’anima del piccolo Pozoriste lutaka, il Teatro dei Burattini. Mostar è sempre stata (è ancora?) città di artisti. Soprattutto pittori, artigiani del rame, scultori. Ma anche scrittori, poeti (i ragazzi imparavano a memoria le struggenti poesie di Aleksa Santic), musicisti.Hamiza, ora, sorseggia il caffé. La sua anima è combattuta. E’ difficile legare i fili del passato al presente: nel mezzo c’è stata una guerra feroce e, ancor oggi, incomprensibile per un uomo come Hamiza. L’uomo di teatro parla, con gioia, di ragazzi che mettono in scena Pirandello, di festival giovanili, di viaggi infiniti lungo aggrovigliate strade di montagna per andare a organizzare spettacoli. La Bosnia-Erzegovina è terra vitale. Poi Hamiza cerca smentite a sé stesso: ‘Nessuno, qui, spende un centesimo per la cultura e, allora, come si può pretendere che nasca un nuovo modo di pensare’. Mi raccontano delle scuole di Mostar, divise per religione, per etnia, per quartiere. Programmi scolastici come base d’appoggio per le guerre prossime venture. In queste terre si è sempre spezzati: la bellezza perfetta dell’acqua e delle pietre è sempre in bilico sul crinale che la separa dai presagi di guerra, dalla paura di altre, irrazionali violenze. Felicità e malinconia improvvise sono le immagini in sequenza di Mostar.

Le origini di Hamiza sono musulmane. Ma il padre, uomo devoto, non ha mai imposto i dettami della religione al figlio. E’ laico, Hamiza. Passeggiamo con lui, varchiamo il confine, visibile e invisibile, fra Est ed Ovest della città. Quartieri bosniaci, quartieri croati. Da qualche parte ho letto che solo il 20% degli abitanti originari è rimasto in città. Gli altri sono immigrati, nuovi abitanti, figli di esodi e controesodi,di fughe dalle quali molti non sono voluti tornare. I vecchi abitanti, spesso, non si ritrovano nella geografia sociale della Mostar del duemila. Hamiza nacque ad Ovest. Una casa solida, sfiorata dalle acque di un torrente, ai piedi del monte Hum (ecco un disequilibrio ben chiaro anche a noi: dalla vetta di questa montagna le artiglierie croate sparavano sui quartieri bosniaci e oggi i francescani non hanno trovato di meglio da fare che innalzarvi una croce fosforescente alta trenta metri). La casa natale di Hamiza è disabitata, abbandonata, ha le ferite della guerra. La finestra della stanza dove è nato è protetta da tavole di legno. ‘Ho passato una bella infanzia – ricorda Hamiza – il fiume, i tuffi, il pallone, l’orto, gli alberi, la montagna. Un paesaggio come terra di giochi. Eravamo selvatici’. La sua famiglia vendeva insalata, prugne e ciliegie ai soldati. Si pescavano le trote nel torrente. Mostar, dopo la furia degli anni ’40, rinasceva nella libertà dei bambini. ‘Ci arrampicavamo verso la vetta del monte Hum. Ci nascondevano nei boschi’. Riappare, carsica, la malinconia: ‘Oggi i sentieri sono ancora minati’. Quindici anni dopo la guerra. E se anche non lo fossero, la gente ci crede. I ragazzi non vi salgono a giocare. A primavera, il primo maggio, prima della guerra, i mostarini salivano in montagna. Arrostivano l’agnello e si godevano il sole come lucertole.


Seconda casa di Hamiza. Quartiere Donja Mahala. Io non vedo i confini, non so collocarla fra Est e Ovest di Mostar. Sponda occidentale del fiume, questo sì. C’è una piccola moschea. Il nonno di Hamiza ne era stato imam. Ogni anno era pieno di feste. Bajram e Mawlid dei musulmani, Natale e Pasqua dei cattolici. ‘Si andava di casa in casa a festeggiarle’, ricorda Hamiza. Banchetti di agnello e baklava. Cevapi e pane caldo di forno. Acquavite per tutti.

Hamiza e sull scoglio Gvozden

La Neretva è a un passo, appena oltre la moschea. ‘Non mi lavavo al mattino – ricorda l’uomo dei burattini – nella bella stagione andavo direttamente al fiume. Un tuffo era il mio bagno’. Un tuffo? Hamiza si gettava da un trampolino di roccia alto almeno dodici metri. Era (è) conosciuto come lo scoglio Gvozden, il ‘Fatto di Ferro’. Qui i ragazzi di Mostar prendevano confidenza con il volo, con l’acqua, con il nuoto. ‘Non andavamo al mare in quegli anni. Questo era il nostro mondo. Battaglie con i ragazzi degli altri quartieri, sfida a passare sommersi le acque del fiume, a balzi andavamo di scoglio in scoglio. Rubavamo i vestiti alle ragazze. I più temerari, spavaldi e sbruffoni, poi, affrontavano il salto dal Vecchio Ponte’. Ogni scoglio del fiume ha un nome. Hamiza li indica uno per uno: Kamila, il ‘Cammello; Pletenica male e Pletenice Velike, ‘la Treccia piccola e la Treccia grande’, Gurubija, il nome di un dolce delle feste; Saraji, i castelli del Sultano…. Geografia personale e passionale di un fiume. Predrag Matvejevic, celebre intellettuale mostarino (origini russo-croate: qui siamo sempre costretti a ‘definire’) , ha gli stessi ricordi. Il nome dei ‘suoi’ scogli? La Grotta Verde, la Profonda, lo Sparviero, il Capo….
A sera, nella bella stagione, la gente del quartiere Donja si sedeva su questi scogli, sulle piattaforme dalle quali si lanciavano i ragazzi. Ed erano chiacchiere, caffé e bicchieri luminosi di zilavka, il vino bianco delle colline di Citluk e delle piane mostarine. Pensate: è stato un agronomo musulmano a salvarne, anni fa, i vitigni. Il padre di Hamiza osò gettarsi un’ultima volta nelle fredde acque della Neretva che aveva più di cinquant’anni. E l’uomo dei burattini, oggi, ha una voglia matta di provarci ancora una volta.

Il lungofiume del bazar


Dissolvenza di immagini. Il primo e l’ultimo saluto di ogni viaggio a Mostar è per ‘lui’. C’è, è rinato, è stato ricostruito, è stato più forte della guerra. Il Vecchio Ponte, lo Stari Most, allaccia nuovamente l’Oriente e l’Occidente, le due sponde del fiume, mischia i due mondi, si fa beffe dei confini. E’ più che un simbolo: per questo venne abbattuto dalle artiglierie croate in un fetido giorno di novembre, esattamente quattro anni dopo il crollo del muro di Berlino (un caso?). Per questo è stato ricostruito. Pietra dopo pietra. Venne nuovamente inaugurato in un caldo luglio del 2004. Era (è ancora?) un ponte multietnico: lo aveva progettato, nel 1566, l’architetto turco Hajrudin. Erano i tempi di Solimano il Magnifico. I mastri operai e gli scalpellini arrivarono dalle coste croate di Dubrovinik; le pietre, le bianchissime tenelije, provenivano dalle cave di Nevesinje, altopiani serbi. Dalle sue spallette, da cinquecento anni, si tuffano i ragazzi di Mostar. Un volo di trenta metri. Se non  vogliono schiantarsi sulle rocce del fondale, devono planare nelle acque verdissime della Neretva, devono imitare, cioè, le rondini quando si gettano verso le acque di un fiume per dissetarsi. I ragazzi di Mostar, prima della guerra, facevano un tifo accesso per i tuffatori. Emir Balic, il più celebre, mille e più voli di rondine dal ponte, era ed è venerato come un antico eroe greco. Sono bellissimi i giovani mostarini. E’ bellissima la città. I minareti sono spilli di pietra, i tetti di ardesia scintillano al primo sole, basta un giorno di primavera e ci si spoglia dell’inverno. Si indossano minigonne, si gettano via le scarpe e si esce con infradito ai piedi. Mostar era (è?) perfetta: acquavite e islam, cevapi come cibo comune, tenersi per mano e baciarsi sotto i gelsi, sulle sponde della Neretva. ‘Profumavamo di allegria’, scrive Marsela Sunjic, scrittrice mostarina.
Si prova a sparigliare i confini, a intrecciare davvero i fili del passato con quelli del presente. Peccato, però, che le chiese cattoliche assomiglino a bunker in cemento armato. Non c’è stato nessun amore, nessuna cura nella loro ricostruzione. E’ come se fosse stata dettata dalla paura. Il campanile di san Francesco è una sorta di razzo che vuole soltanto dimostrare di essere il punto più alto della città. E di nuovo, peccato, che i finanziamenti sauditi siano spesso dietro alle attività delle moschee mostarine. Ci si rinchiude a riccio negli specchi maligni degli integralismi.

Altri specchi cercano, però, di confondere le immagini. Ancora le sponde del fiume, è come le Neretva incoraggiasse a vivere. A un passo dal ponte Tito (lo conoscono ancora così i mostarini). Un giardino-terrazza, sedie e tavoli, un bel locale. Candele accese. E’ il Club Aleksa. Quartieri bosniaci della città, da sempre quartieri della bohemia cittadina. Siamo a un metro dal Corso, marciapiedi consumati dalle passeggiate infinite dei ragazzi. Alexandra gestisce questo moderno caffé. Donna serba. Alle pareti, una vecchia foto dell’antica cattedrale ortodossa della città. Non c’è più, distrutta nella guerra. Adesso, dopo quasi vent’anni, è in corso una ricostruzione. Bevo birra Karlovacko. Birra croata. Melting-pot balcanico al Club Aleksa. Sono felice. Alexandra vuole mischiare cultura e gastronomia. Venera il poeta Aleksa Santic, il poeta serbo, un tempo amatissimo dai ragazzi di Mostar. Per anni e anni hanno recitato, suonato, gridato ad alta voce, ridendo e piangendo, il canto per la ‘bellissima Emina’ che, ‘all’ombra di un gelsomino’, nel giardino di un imam, stava con una brocca in mano. Ecco: poeta serbo, canto per una donna musulmana, birra croata, quartiere bosniaco, foto di una cattedrale ortodossa. Un fotogramma di gioia. Almeno uno. Non corteggiamo sempre l’amarezza. E cento metri distante dal club Aleksa, un altro locale. Un ‘centro sociale’. Dedicato ad Abrasevic. Ancora un poeta. Morto giovanissimo. Un Rimbaud balcanico. Luogo per giovani e finti giovani. Luogo storico. C’era anche nei tempi della Jugoslavia titina. Qui l’attore Hamiza ha conosciuto sua moglie. Oggi è rinato, fa ottima musica, dà spazio ai ragazzi. Culla una storia. Bisogna restituire ciò che si è ricevuto: ‘Stiamo cercando un altro mondo, diversi modelli di organizzazione sociale’. Si sta bene sui divani sfondati dell’Abrasevic, nella sua corte urbana e senza trucchi che (volutamente?) indossa ancora i segni della guerra.

Hamiza al teatro dei burattini


‘Don’t forget’, ricorda una pietra ai piedi della gobba d’asino del Vecchio Ponte. Non dimenticheremo. Sul lungofiume dell’antico bazar, un rom suona la fisarmonica e saluta tutti con un sorriso. Il vecchio Safa, barba bianca, ogni giorno vestito di bianco, è seduto, da sempre, immagino, davanti al suo negozio di splendide cianfrusaglie. Noi siamo arrivati davanti al teatro dei burattini. Spettacolo per una scolaresca. Una principessa di legno muove il ventre in un ballo dolcissimo. Non riesco a staccare gli occhi dalla sua danza. Non vedo più i fili che la sorreggono. Un cavaliere la corteggia. Non capisco una parola, ma la magia del teatro incanta. Qualche storia ha ricominciato a fine bene a Mostar. I due burattini si ameranno. Nel piccolo giardino di Hamiza beviamo limonata fresca. I melograni fioriranno fra poche settimane. 
San Silvestro, 22 aprile








martedì 3 maggio 2011

Primavera a Torino. Letture in cerchio. La guerra



Ieri sera, in un luogo aperto (due grandi vetrate davano su una strada. Non è passata molta gente) una dozzina di persone, sedute in cerchio, attorno a dei libri hanno cercato di parlare di guerra, in un giorno particolare (l’uccisione di Osama bin Laden, l’uccisione di Saif al-Arab, la morte di due ‘nemici’). Ero fra queste poche persone. Le parole, dette e lette, hanno scavato sotto le superfici. Andrebbero approfondite. Fino all’ossessione. La guerra è la nostra (nostra di chi?) norma. Uno dei nostri specchi. Noi, europei, siamo fortunati a vivere una generazione senza guerra sul nostro territorio, ma siamo circondati dalle guerre combattute, e che andiamo a combattere, altrove. So che oggi dimenticherò quanto detto ieri sera. Passerò a un altro lavoro. Prenderò un treno. Volevo almeno che qualche frammento rimanesse appeso da qualche parte.
Ieri sera sono venute fuori alcune parole-chiave sulla guerra. E alcune di loro sono inconfessabili in un radioso mattino di primavera.

Adrenalina.
Sulla parete delle scale della mia casa, vi è una foto scattata molti anni fa. Mi ritrae mentre prendo appunti accanto a tre kalashinkov appoggiati uno all’altro. Penso che quella foto mi piace perché è ‘ambientata’ in una guerra. Perché mi mostra ‘guerriero’. Dà ‘soddisfazione’ essere lì. Con quei fucili a un metro di distanza.
Ecco, la guerra è anche questo: adrenalina. Avete mai provato ad avere in mano un kalashinikov? Avete provato il senso di onnipotenza che trasmette al vostro corpo? Diventa una estensione della vostra mente sovraeccitata. Non voglio immaginare cosa voglia dire sparare, a raffica, con un Ak47. Deve far sentire padroni del mondo.
A rovescio: Henry Fonda, lo spietato assassino Henry Fonda, siede, per un attimo, dietro alla scrivania del suo datore di lavoro, il potente padrone della ferrovia in costruzione fra la costa atlantica e quella del Pacifico negli Stati Uniti. Il film è ‘C’era una volta il West’. L’uomo delle ferrovie chiede, in un rantolo, a Henry Fonda: ‘Come ci si sente’ seduti su quella poltrona. Lui risponde a voce bassa, senza alzare gli occhi: ‘E’ come impugnare una pistola’.

Monotonia.
Ma la guerre sembrano non finire mai. Durano anni. Sempre più raramente sono blitz. Nemmeno l’immensa supremazia occidentale riesce ad aver ragione dei talebani afghani. Nelle guerre ci si impantana. Dalla Somalia si scappa per evitare di affogare nella palude. Le altre guerre si dimenticano. La guerra non è solo azione. Sono turni di guardia, notti senza fine, buche da scavare (anche negli anni Duemila), spazi ristretti da condividere, sudore, sabbia, polvere negli occhi, attesa, il niente. La guerra è monotonia. Noia. Lo ha raccontato bene Tim Hetherington, il fotografo ucciso in questa primavera a Misurata. Il suo documentario Restapo narra i giorni in un avamposto in Afghanistan (guerra noiosa): i giorni scorrono uguali uno all’altro. La monotonia si alterna all’ostilità di un paesaggio. Agli spari improvvisi. Quel gruppo di uomini non sa come passare il tempo. Immaginate marines dell’America profonda in una terra nemica. Non c’è nemmeno il bar dove andare a ubriacarsi.
La guerra in Libia rischia di finire nel fastidio. Nella noia. Doveva durare una settimana, va avanti da quasi tre mesi. Non è monotonia dei soldati occidentali che, ipocriti e asettici, combattono come se giocassero a un vidoegame. E’ assuefazione infastidita per noi spettatori (noi, chi?). Una notizia che non è più tale. Quante centinaia di missioni ha fatto la Nato oggi (missioni per colpire cosa? Devono aver già bombardato tutto o davvero credete nella potenza militare di Gheddafi?)? La guerra di Libia è una zanzara nel giardino di questa primavera. 





Festa
Che Dio mi perdoni, ma la guerra è festa. Lo aveva già intuito, nel 1938, vigilia della seconda guerra mondiale, Virginia Woolf: ‘Gli uomini amano la guerra. Un po’ di gloria, una certa necessità e qualche soddisfazione’. Michele Nardelli, ricercatore trentino, incontra giovani bosniaci lungo il confine della guerra dei Balcani e annota nel suo diario di aver trovato: ‘Un’euforia cameratesca e insieme nichilista, di semplice identificazione nell’impazzimento collettivo di cacciare il nemico….’.  Nardelli scopre un filosofo colombiano, Stanislao Zuleta, un uomo che ha il coraggio di non tacere l’inconfessabile: ‘La guerra è festa. Festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli, dell’individuo finalmente sciolto in essa e liberato dalla sua solitudine, dalla sua particolarità e dai suoi interessi, capace di dare tutto, perfino la sua vita. Festa del potersi approvare senza remore e senza dubbi di fronte al perverso nemico, di credere stoltamente di avere ragione e di credere ancora più stoltamente che possiamo testimoniare la verità con il nostro sangue’.

Identità
Paolo Rumiz, giornalista triestino, racconta nella prima pagina di ‘Maschere per un massacro’, uno dei libri che ci permise (permise a chi?) di conoscere la realtà delle guerre balcaniche, la morte del contadino serbo Gojko Petrovic. Nella sua cantina, i miliziani serbi di Arkan, avevano trovato nascosti cinque musulmani. Quegli assassini in nome di Dio non potevano crederci. Vollero essere sicuri che Gojko fosse un serbo. Gli fecero calare i pantaloni. Lo osservarono da vicino. Non era circonciso. Drago, il capo di quella banda, urlò: ‘Ma come cazzo fa un cristiano a proteggere gli infedeli?’. Battè il calcio del fucile per terra e sparò una raffica uccidendo Gojko. Per conoscere la sua identità aveva dovuto fargli abbassare le mutande. Una identità che non lo salvò. Quel contadino aveva cercato di proteggere i ‘diversi’, gli ‘altri’. 

Non l’ho mai fatto, ma mi piacerebbe che questa discussione non si arenasse. Che potesse venir fuori un pensiero collettivo sulla guerra. Un guardarla senza abbassare la testa.
Per prepararmi all’incontro di Torino ho letto il piccolo, estremo libro di Susan Sontag (Davanti al dolore degli altri). Ne sono rimasto avvolto (dimenticherò anche questo). Ho pensato che lei ha ragione. Adesso, grazie a Susan, anche io ‘so’. Il problema è: ‘E ora che so?’.

L’incontro sulla Guerra è una delle dieci ‘letture in cerchio’ organizzate allo Spazio Opi di Torino dall’Associazione Culturale Compagnia Marco Gobetti. Andateci, se potete: http://pagineattorno.wordpress.com