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Gli uomini, al mattino |
Alla fine mi siedo, appoggio la schiena a un albero e
aspetto. La giornata del trasporto dell’albero giù dalla montagna è fatica,
fango, lividi sul petto, sulle spalle, sulle braccia da esibire con orgoglio la mattina dopo. Guardo passare
questo gruppo di uomini (e donne che irrompono nella tradizione: Isabella
è quasi sempre in testa a tirare) che dalle radure di Spinazzeto,
lassù sul crinale, hanno fatto scendere la pita,
quaranta quintali di legno, abete bianco di trenta metri, fino allo scivolo di
pietra dei vicoli del paese. Alessandria del Carretto, ultima domenica di
aprile, con qualsiasi tempo, è il giorno in cui l’albero compie il grande
viaggio. E’ il giorno della festa, del vino, della forza, della tenacia. Della
comunità. E’ una piccola storia che lascia addosso il senso della meraviglia.
Ed è una storia che non può essere raccontata. E’ eccessiva. E bellissima. Solo una cantastorie calabrese potrebbe
essere capace di dirla.
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Il lavori del mattino |
Al mattino salto sul cassone di un furgone a quattro ruote
motrici. Uomini pigiati uno sull’altro. Cielo di cristallo. Dopo giorni di
pioggia a tempesta, anche il sole sembra inchinarsi alla gente che comincia a
salire verso la montagna. Regala cielo azzurro e aria da inverno che non vuole
finire. Quasi un delusione: è ricordo da narrare ai nipoti quando si tira
l’albero sotto la neve o la tempesta. E’ gloria della memoria il fiato che si
gela nell’aria o le gambe che affondano nella melma. Diciamo che è fortuna che almeno il fango
non manca nemmeno oggi. La pioggia verrà dopo.
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I lavori del mattino |
Alla radura di Spinazzeto, mille e cinquecento metri di
quota, gli uomini sono già al lavoro. Nessuno dà ordini. Un fuoco per scaldare
i rami del prugnolo selvatico che si attorciglia nelle torte. Qui non si usano corde o catene. Le tire, grossi bastoni di pero selvatico, sono allacciate all’albero da questi rami contorti. ‘Non si
romperanno mai’, mi assicurano. Vanno scaldati e poi annodati su loro stessi.
Lavoro di forza. Colpi di scure per arrotondare l’albero e bisogna togliere
sbalzi alle tire. Lisciare il tronco,
che scivoli bene. Lavoro da falegnami dei boschi. Si va con bella lentezza. La
gente sale a piedi. Passa il vino, il prosciutto con il grasso, la frittata, le
cicorie, le uova sode, i baccelli grandi. Arrivano i fotografi, i ragazzi della
musica, la zampogna, i tamburelli.
Passano le ore. Lavoro con destrezza. Sette ganci di ferro vengono ben piantati nel tronco. ‘Un altro’, dice l'uomo, dopo tre colpi di mazza. Poi si annodano le torte, si saggia l’equilibro delle tire. Altre due tire vanno davanti al tronco, come traino. Gli uomini
esperti stanno al timone, che serve anche da freno.
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La partenza |
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La partenza
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Il fango |
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Il fango |
Questa festa ha i suoi vangeli: non ci sono venditori (anzi,
si è infastiditi se qualcuno viene a vendere bicchieretti di legno), il prete rimane
in paese e non si benedice nessun albero, soprattutto non ci sono buoi a faticare per
gli uomini. Sono i corpi a tirar giù l’albero. Le zampogne sono compagne di
viaggio. Ragazzi da fuori paese vengono a dare una mano. Bisogna essere in
sessanta a tirare. Incontro paesani che arrivano da Genova o dal Garda per faticare
su questa montagna. Mille e seicento chilometri di auto per venire a trainare
un albero. Hanno il posto nelle tire in
eredità dal padre. Che l’ha avuta dal nonno. Zi’ Gatto, Franco Gatto, guida il timone dell’albero dal 1975. Il
ragazzo appena dietro ha avuto il suo ruolo dal padre. E’ lui che è arrivato da
Genova. Beppino, il caporale, che, in
piedi sul tronco, guida il corteo, sta
lì dal 1985. E’ una marcia trionfale, questa.
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La prima fatica |
Si parte alle undici. Senza squilli. Qui tutto appare normale. Non c’è spettacolo. Non si fa
teatro. Il fischio di Beppino, cappello nero in testa e due dita in bocca, è il
solo segnale che mette in cammino gli uomini. E subito dopo il gesto che
ripeterà di continuo: la mano lanciata in avanti e poi rivolta all’indietro:
‘Spingete, tirate’. Beppino ha i movimenti del pendolo. Per tutto il viaggio starà in piedi sulla plancia del tronco.
Scarponi nel fango, schizzi di terra sulla lente
dell’obiettivo, slabbrate di melma in fronte, sbandamento di gente, disequilibri,
inciampi, urla, il bosco si anima, perfino gli altri alberi sembrano
partecipare al viaggio del loro fratello, braccia che si arrossano, adrenalina
addosso, il collo che si tende, ginocchia che si alzano nello sforzo, piedi che
scivolano. Danza di tiratori. Bisogna uscire dalla melma. Il viaggio è ancora
festoso e spavaldo. Tutti sanno che si fermerà dopo duecento metri. Bella radura,
alberi a proteggere, cielo rannuvolato, arriva un pioggia veloce, ha
importanza? Tempo del cibo. Ci si divide in comunità. Arrivano suonatori dai
paesi albanesi, amici rasta da Reggio Calabria, un uomo di Cardeto con zampogna
e formaggio e mi dice: ‘Non siamo nemmeno sulla carta geografica’. Arrivano
ragazzi su ragazzi. Vino nei bicchieri piccoli. Un sorso e un altro sorso. Musica.
Tarantelle sul prato. Formaggi stagionati immersi nel miele. Misciaruhi con le uova. Peperoni con
salsiccia. Si taglia il pane appoggiandolo al petto e usando un coltello a
serramanico. ‘Quelli con il manico bianco sono i migliori’. Il gesto lento di
versare il vino tenendo il bottiglione sotto l’ascella. Gli uomini diventano
fontana. ‘La pita la porta giù il
vino’.
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La danza e il cibo |
Nessuno avverte quando si ricomincia. Ma c’è un movimento
collettivo. Davvero questa è comunità. Comunità provvisoria che dimostra che
l’impossibile, almeno un giorno all’anno, è possibile. Bisogna ripartire. Non
so da cosa si capisca, ma i ragazzi riprendono in mano le tire. Via la stanchezza. Ora il viaggio comincia davvero. Il
fischio di Beppino. E non c’è più niente da raccontare. Sono le due del
pomeriggio, c’è mezza giornata di discesa davanti a noi. ‘Raccontala questa vanvera’, mi grida un uomo. Isabella mi
parla dell’Altro Jonio Possibile. Della comunità. Del paese che muore. Dell’ipocrisia,
delle troppe chiacchiere, del Sud. Degli scoraggiatori. Dei ragazzi che vorrebbero un altro paese.
La loro ribellione. La loro impotenza. La loro forza. Ritrovo Isabella a tirare
davanti a tutti. Balla con i grandi. Come
qui chiamano i vecchi. I passi di tarantella degli anziani (solo uomini) sono
un incanto. Danza di vecchi orsi leggeri. Qui i balzi di generazione sembrano non contare. C’è affetto su
questi prati.
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Partenza |
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Il vino |
Giù per le discese. C’è la scivolatura. Cento metri ripidi come un precipizio. I sassi
scricchiolano sotto i piedi. Un tempo qui mollavano l’albero. Che se ne andasse
da solo. Ora lo trattengono, ruzzolano pietre, si puntano i piedi. La pita si
incastra, si inchioda, sbanda, viene recuperata, rimessa in strada. Davanti ci
sono i ragazzi che tireranno fino all’ultimo minuto. Dietro, sulle ultime tire,
è sarabanda. Si va avanti a strappi, soste, vino, scroscioni di pioggia, nebbia
gelida che accerchia questo irreale corteo. So che sta accadendo qualcosa di
bello. Ci vorrebbe Salgado da queste parti. Oppure Gabriel Garcia Marquez.
Queste sono Ande d’Italia. Latinoamerica del Sud. Gente sale dal paese e si ferma sui prati a godersi
lo spettacolo.
Appare la cima. Abete giovane. Segreto della festa. Da dove
arriva questo nuovo albero che dovrà essere innestato sulla pita? Tutti lo sanno, non può essere
detto. Le mani fanno un gesto di eloquenza. Gli uomini addobbano l’albero, ne
legano i rami (che non si rovinino nella discesa), lo sollevano, se lo mettono
in spalla. Adesso precederà i passi del grande albero. I gruppi si incontrano.
I due alberi si annusano. Applausi.
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La zampogna |
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Zi' Giovanni |
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Veniva da Cordeto |
‘C’è meno gente dello scorso anno’, mi avvertono. C’è stata
una perdita in paese. Un lutto di quelli che lasciano ferite. Molta gente non è
salita. Sono ancora mesi del nero. Dureranno a lungo. Alcuni sono andati via
dal paese per stare lontani dalla festa. Troppo forte il dolore.
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La discesa |
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Comunità |
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La discesa |
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L'apparizione della cima |
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La strada della montagna |
L’albero scende. Ha il suo ritmo. La stanchezza è oltre il
corpo. Ci si siede, ci si passa la mano sul viso, ancora un bicchiere di vino. Gli
occhi hanno lampi. Ci si tocca per darsi forza. I timonieri non hanno toccato
un goccio. Loro hanno in mano la velocità del tronco. Non è gioco per
distratti, questo. Sanno che a loro tocca essere saggi per tutti quanti. Li ho
visti addomesticare il tronco, domare l’albero quando voleva imbizzarrirsi, lasciare
sciolte le sue briglie quando si incastrava. In fondo, s’intravede il paese. L’ostello
Ambrosia. Ultima fatica. Ancora una discesa. Siamo arrivati. Ricomincia a
piovere. Saltano fuori cerate e organetti. Si balla uno addosso all’altro. Sotto
ripari che fanno scivolare l’acqua dentro il collo. Festa immediata, continua.
L’abete se ne sta in pace per un po’. Animale abbandonato nella strada. Anche
lui ha l’aria della fatica.
‘Scrivi di questo paese. Qui parlano parlano, ma poi non ci
sono frutti’. E mi dice di mettere il nome: Passino.
Un vecchio mi prende da parte, incavo della mano, sussurro nell'orecchio. Mi chiede se gli trovo una donna. Me me indica una
e si porta le mani al petto. Guardo la sua solitudine. Attorno i ragazzi
ballano. Si grigliano salsicce sotto la pioggia. E’ tempo di birra.
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Ingresso in paese |
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Il ballo |
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Arrivo in paese |
Arriva la notte. I lampioni regalano colori di arancio agli
alberi. Fa freddo. Insiste a piovere. Ci si raduna a urla. Ultima adrenalina.
La più tosta. Si fatica a ripartire. Si libera il tronco da sacchetti di baccelli e lardo.
Bisogna andare, non è più tempo di mangiare. Il gioco si fa ancora più serio. Il paese è uno scivolo umido. I vicoli sono stretti. Le pietre
sono trappole. Le tire non gireranno
nelle strettoie, si incastreranno negli angoli delle case. Questo è il momento
dell’emozione. Via, via. I ragazzi hanno eccitazione addosso. Sembrano atleti
al via della corsa per la vita. Appare il sindaco, Isabella è ancora lì, in
testa al corteo scomposto e fremente. Ora ci
sono i comandi, ci vuole attenzione e sapere. Questo lavoro non è uno
scherzo. Il vigile mi confessa: ‘Queste case le hanno tirate su negli anni ’60
senza pensare alla festa. Da qui è sempre passato l’albero e, invece, hanno
fatto una strettoia’. Sorprendente questa storia di urbanistica di paese e festa. Qualcun
aveva avvisato i geometri? La discesa è un ruzzolone tempestoso. L’abete si inchioda
negli spigoli, spezza mattonelle, minaccia terrazze, fa tremare cancellate, minaccia le finestre.
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Tumulto in paese |
Le
tire si inarcano, scivolano, si stroncano. Vengono sostituite. Ragazzi
rimangono con i piedi impigliati nel legno. Ci si spinge, si urla, ci si fa
coraggio. Si balza da una parte all’altra del tronco. Si acchiappa al volo chi
scivola. Un ragazzo mi grida: ’Vai avanti, sali sul terrazzino’. Gli do retta. Salto legni di
traverso. Spingo anch’io. Salgo su una sorta di soppalco stradale. Benedico il
non-finito calabro. Questa volta mi salva. Un ragazzino protesta, ho preso il suo posto, gli ho tolto la prima fila. Arriva l’abete,
le tire cercano di falciare i nostri
piedi, un grido finale, scroscio di pioggia, acquazzone improvviso.
Eccitazione. Sovraeccitazione. Intrico di gambe, mani, corpi, urla, stanchezza,
bellezza, braccia, fatica, orgoglio. Tutto nell’ultimo precipizio del paese. Un
balzo rabbioso, l’abete si arena nello slargo che avrebbe voluto essere piazza.
Piove a dirotto, i ragazzi salgono sul tronco disteso per terra, si prendono e si danno applausi. Organetti, zampogne,
tarantelle. Senza una difesa per la pioggia. Anche lei vuole partecipare alla festa.
La pita è in paese. Cerca il suo
riposo. Accerchiata dalla gente bagnata e in festa.
Matera, 30 aprile
Bella descrizione...fra le poche che leggo con piacere e che fa rivivere l'atmosfera di questa festa
RispondiEliminaGrazie.....il racconto è sempre figlio/a di quello che ti mostrano, vivono, fanno...il racconto è di altri. Magari mi riuscisse...
RispondiEliminabelle foto e bella narrazione!
RispondiEliminaGrazie, Manuel. Come già detto: il merito è di chi fa, chi racconta, in fondo, sta a guardare....
RispondiEliminaAndrea grazie per le foto, ti aspetto ad agosto
RispondiEliminaPaolo, arriverò con le altre foto, chiamani, ricordamelo....
RispondiEliminaok
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