Oliveto Lucano |
La prima Italia finisce a Caianello. Anni fa sono già stato da
queste parti sconosciute: era il tempo nel quale inseguivo quel Che Guevara
italiano che è stato Garibaldi. Qui finì la sua risalita del paese, l’esercito
piemontese lo fermò a Teano. Un generale in camicia rossa non poteva marciare
su Roma. Allora mi sorpresi di non sapere niente di questa Altra Italia che ora
scorre al lato della mia macchina. Non
so perché torno ancora una volta a Sud. Non ho ragioni. Vado lo stesso. Per il
tempo che passa, immagino. Per non riuscire a stare fermo. Per dirmi che non sono al Cairo, nè nella Selva Lacandona.
La mia auto rossa, con un San Rocco incollato sul vetro di un finestrino, è fedele e prende con decisione l’uscita di
Caianello. Abbandono l’Italia che se ne va verso il ferragosto e si mette in
coda ai distributori delle autostrade. La mia Punto rossa è la macchina più piccola fra le tante di questa fila. Lascio l’autostrada e davvero c’è un altro paese.
Scompaiono le auto, il paesaggio diventa selvatico, paesi di pianura scempiati
dalle urbanistiche, ma la natura sembra ribellarsi perfino a questo assalto e,
in qualche modo, resiste. E’ un deserto urbano, spossato dall’apice
dell’estate. Non so, Franco Arminio vede qui una resa, io rintraccio puntigli
di speranza. Deve essere storia di carattere. Ma intravedo resistenza anche nel
panino con bufala e pomodoro che un uomo mi prepara a una stazione di servizio
che potrebbe essere nell’America interna. Bagdad Cafè del beneventano. O è viceversa? E' il Texas ad assomigliare a questa terra? Come sempre penso: ‘E se mi fermassi
qui?’. In questo nulla che nasconde qualcosa che non
riuscirò mai a capire? Non accade mai. E allora i chilometri dell’Italia
interna diventano solitudini di paese. Questa è davvero il territorio di Franco
Arminio: c’è Lacedonia, il bivio per la sua Bisaccia, l’Irpina Orientale. Tiro
fuori il suo libro e lo sventolo dal finestrino quasi fosse un lasciapassare. Ora capisco quando scrive di vento: le foreste di pale eoliche sbucano da dietro ogni campo di grano. Alcune
sono ferme, altre ruotano con pigrizia estiva. E’ come se un popolo di un altro
pianeta avesse conquistato queste colline imprigionando gli uomini senza costruire
prigioni. Deve esserci vento forte da
queste parti. Da dietro le linee dell’orizzonte si vedono pale che trafiggono
la frontiere fra cielo e terra. Mi appaiono minacciose, ruotano come mostri in agguato. Passo due confini: Campania/Puglia e subito dopo Puglia/Lucania. Ecco, sono a casa.
Campi stremati dall’estate, odore di stoppie, linee di trebbiature che
disegnano geometrie sui pendii. Come mi piace questo paesaggio. La sua
immobilità. Le case sono disperse, hanno panni tesi nell’aia, anche se sembra
che nessuno viva qui. Sfioro Melfi e la tentazione è di fermarsi nel negozio di
tessuti di Enrico. E’ la controra, ora sacra, tempo intoccabile della giornata.
Mando un messaggio. Si perde. Un’altra volta. Ci sarà un’altra volta.
Proseguo
per Potenza, per la strada del Basento, ora conosco i passi, il vuoto, le montagne e i chilometri. Ecco il
profilo delle Dolomiti Lucane, il bivio di Campomaggiore, la strada che si fa
tortuosa nel bosco, non ci sono vacche, fa troppo caldo, devono essere salite
ai monti. Nessuno. Nemmeno una macchina. Salgo e ridiscendo. Conosco le curve.
Avrei voglia di scendere e andare a piedi. A Oliveto Lucano devi proprio
decidere di andare. La strada finisce nella sua grande piazza.
Oliveto Lucano |
Ecco quanto scrissi un anno fa:
‘Ad Oliveto Lucano
bisogna voler andare. Si sale con tornanti dalla valle della Salandrella. Non
ci si arriva per caso, è lontano da tutto, questo paese. Quasi settanta
chilometri da Matera. La strada finisce nella bella piazza. Le case si
aggrovigliano sullo sperone di una collina. Ruotano in un ovale da urbanistica
di montagna. I vicoli sono salite brusche. Attorno, le montagne, i boschi,
chiudono gli orizzonti. Tre bar, una macelleria che griglia la carne, una
pizzeria. Niente giornali, niente banca, connessioni difficili, le scuole che
arrivano alla quinta elementare. La chiamano ‘pluriclasse’. Una grande chiesa,
Maria Santissima delle Grazie, in vetta al paese. Un giovane prete, don
Anthony, è arrivato dalla Nigeria otto anni fa.’
Devo aggiornare: non c’è più nemmeno la pizzeria. Chi la gestiva ha scelto la pensione. Mi ero
dimenticato di scrivere del panificio un anno fa. Quello c’è ancora e le sue focacce, quando le fa, sono
eccellenti.
I portoni di Oliveto |
Scrivevo ancora:
‘Cinquecentosei
abitanti, Oliveto Lucano. Mai stati così pochi da centocinquanta anni a questa
parte. Grandi migrazioni a cavallo del ‘900: mille e centosedici abitanti nel
1881, ottocentottantasei nel 1901. Altra fuga negli anni ’60 del secolo scorso:
1235 abitanti nel 1961, appena ottocentonovantadue dieci anni più tardi. Gli
ultrasessantacinquenni, oggi, sono cento e settantanove. Quattordici i bambini.
Cinque i dipendenti comunali. Sindaco e vicesindaco donna. Un solo assessore.
Un affresco in
maiolica, monumento della piazza, ricorda un brigante e una donna. Nessuno sa
raccontarmene la storia. Beffardo contrappasso: la piazza è dedicata, al
solito, a Umberto I. Gli uomini giocano a carte dal bar Italia. Dietro al
bancone c’è una donna dall’aria triste e le parole scarne. A fianco un
sorprendente albergo: lo hanno chiamato Hotel de Ville. Un tempo qui era il
comune. Nessuno vuole gestire queste stanze. Nei giorni della festa qui si dorme
per cinque euro.
Oliveto fa fede al suo
nome: si produce un olio prezioso. Di olive maggiatiche. Per consumo in
famiglia. L’economia sembra non esistere a Oliveto. Si vendono formaggi agli
amici. Si fa i pendolari con la Fiat di Melfi (quando non si è in cassa
integrazione), quattro ore di viaggio ogni giorno, o con Matera e Pisticci.
‘Non c’è niente a Oliveto’, mi dice un ragazzo.’
Il paesaggio di Oliveto |
E io, da straniero, mi ostino a pensare che qui ci sia ‘un
sistema che ha resistito’. Non ascolto nemmeno (forse dovrei) chi mi racconta
delle tensioni che attraversano il paese. Io mi siedo nella piazza e ne guardo
la lentezza che niente sembra scuotere. Gli uomini continuano a giocare a
carte. Ci si offre il caffè in una gara di buone maniere e di ospitalità che sta nel Dna delle abitudini. Don Anthony mi
ospita nella canonica, ha sfrattato persino la banda per far posto agli amici
che arriveranno più tardi. Ho una stanza da monaco. Dà sui tetti. Si sente una
musica da una radio. Mi piace essere qui. Vorrei essere altrove. Ma poi saluto, quasi uno a uno, gli abitanti di Oliveto e chi è tornato per la Festa. Mi sento parte.
Scendo subito a vedere a che punto sono i lavori
dell’albero. Sì, questi sono i giorni della Festa. Non pensavo di tornare a
Oliveto a far da testimone a vedere ancora una volta sposarsi il cerro e
l’agrifoglio delle foreste di Gallipoli-Cognato. E invece sono qua. Gli uomini
hanno già finito il lavoro e il pranzo. Ma c’è spazio a sedere, c'è accoglienza, il tempo di
una birra, di provolone arrostito, di salame e di pomodori. Casa, davvero.
Comunità. Parliamo. Io in italiano, loro in dialetto. ‘Ci eravamo chiesti
perché non eri qui’. Stringo mani, bacio sulle guance. Per un po’, niente
pensieri. ‘Tutto a posto?’.
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