mercoledì 26 marzo 2014

Cronache da Gerusalemme.7/Lo stesso colore verde

I mosaici della Cupola della Roccia

Nel 687, il califfo Abd al-Malik avviò la costruzione del santuario della Cupola della Roccia, la Qubbat as-Sakhra. Doveva venerare e proteggere la roccia del monte del Moria, la roccia più sacra della Terra: da qui avvenne l’Isra, l’ascesa al cielo del profeta Maometto in groppa al cavallo alato, al-Buraq. Le religioni del Libro credono che su questo stesso masso Abramo abbia offerto il proprio figlio in sacrificio a Dio. Venne fermato in tempo. Qui, secondo gli ebrei, si trovava l’Arca dell’Alleanza: questo era il Qedosh ha-Qedoshim, il luogo più santo dell’ebraismo.


La cupola dorata

La Cupola della Roccia è una meraviglia. La sua cupola dorata è l’icona di Gerusalemme (anche dei depliant di Israele, anche dei cristiani: è su ogni copertina). I suoi mosaici sono splendenti. La Spianata delle Moschee è un luogo di pace. C’è spazio, silenzio, alberi, giardini, piccoli santuari.
Alla costruzione della Cupola della Roccia lavorarono operai gerosolimitani. Ma architetti e manovali specializzati arrivano da Damasco. Erano cristiani, la loro cultura era bizantina.
In una città dove ogni pietra ha significati sacri e guerrieri, comincio ad amare la Gerusalemme bizantina.

Questa mattina vado in cerca di pace.
Vado a trovare i giovani restauratori che stanno salvando mosaici cristiani nella Cappella dei Franchi, una delle tante del Santo Sepolcro. Sono sei ragazzi, cinque musulmani e un cristiano.

Selem al lavoro nella Cappella dei Franchi (foto di Vittore Buzzi)

Osama Hamdam, architetto gerosolimitano, direttore del Mosaic Center di Gerico, studi universitari a Torino, mi indica un tassello verde del piccolo mosaico sopra uno delle architravi della cappella, uno dei pochi frammenti superstiti della struttura originaria della chiesa, risale all’XI secolo: ‘E’ lo stesso verde che puoi ammirare alla Cupola della Roccia’. Osservo Salem e Rael lavorare con competenza. Salem ha poco più di vent’anni. Due anni fa si presentò alla scuola di Osama assieme ad altri ragazzi: venne accettata, ora sta imparando in fretta. Rael, invece, è esperto, lavora come restauratore da anni, viene dai territori, da Nablus, ha un permesso speciale, ma ogni giorno impiega ore e ore a passare il check-point di Qalandya. Il suo permesso scadrà ad aprile. I suoi figli non hanno mai visto Gerusalemme, non possono passare quel check-point. Bisognerà mostrare questi mosaici a Papa Francesco, quando verrà a Gerusalemme a fine maggio. In fondo vengono restaurati per la sua visita. Bisognerà raccontargli della fatica quotidiana dei palestinesi.

Rael al lavoro nella Cappella dei Franchi

Gerusalemme è cristiana, ebraica, musulmana, bizantina, romana, mamelucca, ottomana, pagana, crociata, persino britannica a ben vedere. Il lavoro di questi ragazzi ne è la prova. ‘Era importante che formassimo dei ragazzi gerosolimitani. Chi viene da Gerico o da Nablus non ha mai la certezza di poter varcar un check-point e o se il suo permesso per uscire dai Territori sarà confermato o meno’, mi dice Osama. Sei ragazzi, una goccia nel mare di disoccupazione o di lavori mal pagati che vengono offerti ai giovani palestinesi di Gerusalemme. ‘Si sta smarrendo la nostra identità’, avverte Osama. Ma questi ragazzi, per quattordici mesi, hanno ripulito dieci milioni di tessere dei mosaici della Basilica delle Nazioni, la chiesa dei Getsemani: ancora una volta, giovani musulmani al lavoro nell’Orto degli Olivi. Ti appigli alla speranza. Ti ricordi di Umar ibn al-Khattab, il successore di Maometto, che conquistò Gerusalemme e entrò in città accompagnato dal patriarca Sofronio. Non volle pregare all’interno del Santo Sepolcro per evitare che i musulmani ne rivendicassero la proprietà.

I restauratori del Mosaic Center di Gerico davanti alla Basilica delle Nazioni (foto di Vittore Buzzi) 



Poi devi anche chiedere: ‘Sono palestinesi gli operai che hanno costruito il Muro e le case degli insediamenti nei territori occupati….’. ‘Vero, e non posso prendermela con loro – risponde Osama – Noi abbiamo una colpa, l’autorità palestinese non è stata capace di pensare al futuro della loro gente. Non c’è lavoro e bisogna sopravvivere. Non posso avercela con chi fa il muratore. Deve vivere. Che altro può fare?’.

Mi scrivono da Ramallah. A Jenin hanno ucciso tre ragazzi a Jenin. Cercavano Hamza Abu al-Haija, militante di Hamas, scrivono i giornali. Gideon Levy, giornalista di Haaretz, lo aveva incontrato due settimane prima e aveva scritto: ’Non agiva a come un uomo ricercato. Stava trascorrendo la giornata nella sua casa di famiglia normalmente: non era armato, né tradiva segni di nervosismo tipico degli uomini in fuga . Stava giocando con la sua nipotina e si è unito alla nostra conversazione con la madre’. E’ insorto il campo di Aida a Bethlehem. Spari, candelotti, pietre, battaglia. Non è più nemmeno Davide contro Golia. Chi mi scrive dice anche: ‘Questa è la normalità’. Perché mi viene da pensare che Rael, in questi giorni, non avrà potuto andare a lavorare al Santo Sepolcro?


Osama e Rael (foto di Vittore Buzzi)


Mi siedo con i ragazzi sui gradini che salgono alla Cappella dei Franchi. Ricordo che Osama mi aveva spiegato: ‘Per i palestinesi, la chiesa costruita sui luoghi della passione, morte e resurrezione di Cristo non è il Santo Sepolcro, ma Kanīsat al-Qiyāma, la Chiesa della Resurrezione’.

Gerusalemme, 26 febbraio








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