mercoledì 19 marzo 2014

Cronache da Gerusalemme.4/Bethlehem, l'ospedale oltre il Muro





Bethlehem

Scrivo con difficoltà. Con imbarazzo. Hanno scritto in molti del Baby Caritas Hospital di Bethlehem, ‘La città del pane’. Giornali e riviste importanti come orgogliosi bollettini di parrocchie e diocesi. Sono molti i gruppi di pellegrini cristiani che, una volta giunti nella città della Natività, decidono di visitare anche questo ospedale fondato, oltre mezzo secolo fa, dalla Caritas tedesca e da quella svizzera, e, dal 1975, affidato, nella sua attività quotidiana, alle suore Elisabettine di Padova. Al ritorno dal viaggio ognuno scrive la sua testimonianza commossa, il suo racconto emozionato: ben si capisce, qui, sulla frontiera della terra di Palestina, si comprende, con gli occhi, con il corpo e con il cuore, cosa voglia dire vivere al centro di un conflitto crudele e quotidiano. E, allora, le parole diventano fragili e inadeguate di fronte ai bambini, vittime predestinate di questa guerra che spezza la Terra Santa.
Il Baby Caritas Hospital (82 posti letto, trentacinquemila visite ambulatoriali ogni anno, più di quattromila ricoveri e il giorno in cui sono passato 123 visite e quattro emergenze) è l’unico ospedale pediatrico di Palestina. Il solo che offra gratuitamente la sua assistenza (14 medici, due reparti di pediatria, uno di neonatologia, 220 dipendenti fra infermiere e collaboratori) a chi (il 95% di chi ne ha bisogno) non può sostenere i costi di una visita o di un ricovero. Negli altri ventiquattro ospedali pubblici dei Territori Palestinesi (come nelle cliniche private) ogni cura è a pagamento. Critica, in modo particolare, è la situazione dei bambini: qui la mortalità infantile è cinque volte più elevata di quella italiana.

Il reparto principale del Baby Caritas

Ma, prima di parlare del Baby Hospital, bisogna pur arrivarci. E, da dieci anni, il breve viaggio, otto chilometri, fra Gerusalemme e Bethlehem, è un batticuore. Vi sono stati periodi nei quali era impossibile. Niente è facile in Israele e Palestina. In mezzo fra le due città sante, c’è il Muro. Qui è alto otto metri e il check-point numero 300 è, dal lato palestinese, un corridoio di inferriate. L’ospedale è a meno di duecento metri dal Muro. Il suo cemento chiude ogni orizzonte verso Occidente. All’alba il check-point si intasa di lavoratori palestinesi (cinquemila, calcolano gli osservatori del World Council of Churches), almeno di quelli che hanno un permesso per uscire dai Territori. Aspettano ore per poter passare controlli snervanti ed essere in prima fila quando caporali di costruttori edili verranno a prelevarli sui marciapiedi di Gilo, sobborgo (quartiere ebraico? Colonia illegale?) di Gerusalemme. Dal grande terrazzo della casa delle suore il panorama vola sulla Palestina. Un reticolato accerchia Bethlehem. L’insediamento di ar Homa, ‘la montagna del muro’ occupa, come un villaggio fortificato la collina di Abu Ghnein. Per Israele è il confine orientale di Gerusalemme, per i palestinesi è una colonia in terre occupate.

Il Muro a Bethlehem

Il Muro non è solo un brutale confine militare. E’ una minaccia quotidiana. Il Baby Hospital non ha un reparto di chirurgia. I suoi fondatori ben sapevano che a soli otto chilometri ci sono gli ospedali di Gerusalemme: le emergenze (crisi cardiologiche, interventi di urgenza) venivano dirottate verso di loro. Non potevano immaginare che qualcuno avrebbe strappato la geografia e diviso le due città. I check-point hanno trasformato la salvezza di un bambino in un impietoso groviglio politico: l’esercito deve acconsentire al transito delle ambulanze, deve indagare sui familiari del bambino, deve assicurarsi che non siano un ‘pericolo per la sicurezza di Israele’. ‘Ora va meglio: in sette ore riusciamo ad avere i permessi necessari’, mi dice Donatella Tella Lessio, 52 anni, una delle suore che gestiscono questo ospedale. In passato potevano passare giorni. L’ambulanza palestinese non può varcare il check-point, il bambino deve essere trasferito su un mezzo israeliano. Con addosso l’apprensione di perdere tempo prezioso. E ancora: nessun medico israeliano (e ce ne sono di disponibili) può venire a Betlemme per consulti, visite o incontri. Lo vietano le leggi militari. Un cartello rosso avverte che un israeliano rischia la vita a Bethlehem e commette un reato.





Ci vuole spirito forte per sopravvivere in Palestina. Andiamo a piedi verso l’ospedale: il Muro qui si attorciglia, si prende la Tomba di Rachele, accerchia le case come se fosse un serpente immenso. Mi spiegano che il territorio di Bethlehem si è ridotto da 40 chilometri quadrati a poco più di tre. I coloni israeliani si sono insediati anche dentro i confini della città. A luglio, a meno di una decisione contraria della Corte Suprema israeliana, Bethlehem e i suoi sobborghi (i due paesi di Beit Jala e Beit Sahour. Nel recinto di Bethlelem vivono 75mila persone) saranno del tutto accerchiati. La sola via di uscita sarà il check-point numero 300. La bella valle di Cremisan, questa è la minaccia, rischia di rimanere ‘al di là’ del Muro. In Israele-Palestina c’è sempre un ‘al di là’ e un ‘al di qua’. 





I contadini del Sud della Palestina non potranno più portare la loro uva alle cantine del convento salesiano di Cremisan. Il destino del celebre vino di questo monastero sarà nelle mani dei militari israeliani. Cinquantotto famiglie di Beit Jala saranno separate dai loro oliveti. Non si potrà né entrare, né uscire senza autorizzazione, uomini e donne dovranno subire l’umiliazione dei fucili dei soldati al check-point. Per capirsi: con l’assedio militare, la disoccupazione Betlehem è salita fino al 70%. Il reddito medio di metà dei nuclei familiari (almeno sette persone) è di 270 euro al mese. Si vive di sussidi, di aiuti. Un terzo dei ragazzi sta cercando di emigrare: non vedono futuro nella loro terra. I cristiani fuggono da questa città. Sono circa 14mila, hanno parenti all’estero, vogliono andarsene. ‘La nostra caposala se ne è andata – dice suor Donatella – Non c’è futuro per i loro figli’. Ci vuole davvero il privilegio dell’ironia per sopravvivere in Palestina: il Muro, nei pochi passi verso il Baby Hospital, è diventato la tela in cemento di writers, artisti di strada, graffitari, bravi disegnatori. E persino spazio pubblicitario: il Bahamas Restaurant ha cambiato nome, ora si chiama The Wall Restaurant. E ha dipinto un grande rettangolo bianco sul cemento del Muro che si alza a cinque metri dalla sua veranda. Ben si capisce: a giugno vi sono i mondiali di calcio.



L’ospedale è gestito con sapere e passione. E’ un’eccellenza sanitaria. Le stanze per i bambini ricoverati sono sistemate a semicerchio. Spazi a vista. Tutto è sotto controllo. Saliamo al reparto di neonatologia. Si sta costruendo uno spazio per i giochi. Il Baby Hospital non è un semplice luogo di soccorso e di cura. Qui le madri ricevono insegnamenti preziosi per prevenire le malattie. Funziona una scuola per infermiere. Ci sono più di centomila bambini, in età inferiore ai quattro anni, fra Betlemme e il Sud della Palestina. Le famiglie di Hebron, fino a quando il Muro non verrà sigillato, portano qui i loro figli ammalati. Pochi, pochissimi, complice l’occupazione militare, riescono ad arrivare dal Nord dei Territori. Durante la guerra a Gaza, il Baby Hospital offrì disponibilità di trenta posti letto, ma nessuno bambino riuscì a varcare i fili spinati che chiudono quel territorio.
Trascorro una mattina intera fra i due reparti dell’ospedale. Sfioro la vita: bambini prematuri si battono come leoni, al caldo delle incubatrici, per sopravvivere. Non è la prima volta che vengo qui:
ricordo Nasser, aveva sette anni quando lo incontrai e aveva subito 103 ricoveri. Malattia da consanguineità. Ho conosciuto Bachir. Aveva già 17 anni e non avrebbe dovuto essere qui, dove il limite di età è 14 anni. Ma lui era sempre vissuto al Baby Hospital. Non poteva crescere. E’ morto. Ma ricordo il suo sorriso felice di fronte alla meraviglia di una lattina di Coca-cola. Mahammud morì pochi giorno dopo che me ne ero andato. Aveva sofferto per dieci mesi. Quella sera Donatella mi scrisse: ‘Ieri pomeriggio alle 18 è morto Mahammud! Ha consegnato, pagato al mondo, alla storia, la sua parte di dieci mesi di sofferenza! Il debito (?) è stato saldato! Ora è nella pace e questo mi consola anche se piango’. Come avrei voluto piangere assieme a Donatella. Rileggo le sue parole e vorrei essere lì, a guardare le colline di Palestina. Dovrebbe essere arrivata la primavera.  

Suor Donatella Lessio

Il Muro, l’occupazione della Palestina, hanno rinchiuso gli abitanti di Bethlehem, di Hebron, della West Bank in una grande prigione. Qualche anno fa, la tradizione che imponeva matrimoni all’interno delle famiglie aveva cominciato a incrinarsi. I ragazzi si incontravano con più libertà. Si cercava di allentare le catene dei clan familiari. Il Muro ha richiuso quegli spiragli. Ha tolto aria. Ha serrato nuovamente le manette. Provocato claustrofobia. Sta asfissiando le donne, i giovani. Ci si sposa fra cugini perché così vuole la legge del clan. Ma è quasi impossibile fra altrimenti: non si può più andare altrove a cercare un altro amore. A volte, ne nascono figli malati e condannati. Si diffonde la sindrome di down. Le famiglie si spezzano e affondano in tragedie consumate in silenzio. Al Baby Hospital arrivano i bambini che non si possono più nascondere nelle case. E poi ci sono le malattie della povertà. Il freddo, in inverno, brucia i polmoni. In estate sono le infezioni che svuotano di ogni energia i più piccoli. A volte arrivano in ospedale solo quando sono pelle e ossa. Un giorno si dovrà pur studiare il rapporto stretto fra l’occupazione militare e la salute della gente di Palestina.



Cammino ancora una volta fra i reparti dell’ospedale. Ci sono i tubicini che escono dai nasi, graffi di cerotti, cannule infilate nel dorso della mano. Occhi che reclamano con forza il diritto alla vita. E’ la normalità della malattia. In mezzo ai giochi dei bambini. All’andirivieni esperto e instancabile, spesso frenetico, delle infermiere (nessuna con il velo: rimane fuori dalla porta anche per chi lo indossa per le strade di Betlhehem), dei medici. Ci sono i passi silenziosi dei genitori. Le madri che cercano di sorridere. Un padre che tiene la mano del figlio. Conosco la fatica e i dubbi di Donatella, ma sono nascosti dentro di lei quando attraversa, con mille attenzioni, i due reparti dell’ospedale. Il sorriso dei suoi occhi è un contagio benefico.

Il graffito del Baby Caritas sul Muro

 Faccio il cronista: non posso dimenticare i numeri. Questo ospedale costa quasi nove milioni di euro ogni anno. Somma, al 95%, coperta da donazioni. Ogni bambino costa 800 shequel al giorno, 160 dollari. A chi può viene chiesto un contributo. Un centinaio di shequel  al giorno. In questi mesi stanno nascendo nuovi padiglioni. Finalmente ci sarà una grande sala giochi. L’ospedale non è solo la salute dei bambini: il Baby Caritas è economia. Per numero di dipendenti, questa è, dopo l’Università, la seconda azienda di Betlhehem. Le infermiere che qui lavorano hanno salari da novecento dollari al mese. Se hai figli e tuo marito non lavoro, non bastano per vivere. Nemmeno a Bethlehem. Ma queste sono donne specializzate che, in altri ospedali, sarebbero pagate 400 dollari in meno. Si capisce che, in molte, vorrebbero poter lavorare qui. Qui i figli dei dipendenti hanno uno splendido asilo. In estate, le infermiere vengono a farsi la doccia quando a casa manca l’acqua (i problemi del conflitto e dell’occupazione sono queste storie di vita quotidiana). Questo ospedale è vita, società, comunità. Esco dai reparti. La luce di Palestina ha la bellezza del Mediterraneo. Quasi acceca.

Banksi a Bethlehem

Il Baby Caritas, mi raccontano, è figlio di una notte di Natale. E’ quasi una piccola leggenda, risale al 1952: Ernst Schnydrig, un prete vallese, figlio di contadini, era a Betlhehem in quelle ore sacre per i cristiani. Non so se raggiunse la chiesa della Natività per la messa di mezzanotte: faceva molto freddo e fra le tende dei profughi palestinesi, fuggiti dalla prima guerra arabo-israeliana del 1948, il giovane sacerdote intravide un uomo scavare la fossa per suo figlio. Il bambino era morto di freddo, di fame, di stenti. Morto nelle stesse ore in cui nasceva Gesù. Schydring non ebbe più pace: convinse medici palestinesi, trovò appoggio di volontari svizzeri, affittò due stanze, comprò lettini e culle. Quattordici bambini trovarono soccorso e cura in questo primo ospedale improvvisato. Il lavoro di Schydring fu tenace: convinse le Caritas di Svizzera e Germania a sostenere i suoi progetti, trovò donatori, organizzò i medici, fondò la scuola per le infermiere, avviò programmi di medicina preventiva. Ernst morì nel 1978. Pochi mesi prima dell’inaugurazione del nuovo ospedale.



Ora, lontano da Bethlehem, lontano dalla vita (la gioia, il dolore) di questo ospedale, mi torna in mente Nasser. E riaffiora un’altra storia. Avvenuta anni fa. Ne sono passati già sette da quanto mi fu raccontata. E, ancora una volta, accadde a Natale. L’inverno del 2007 era gelido. L’ospedale era pieno. Per mesi la madre di Nasser, disperata, aveva parlato con Donatella. Non voleva un nuovo figlio. Aveva paura della malattia che minava quelli che erano già nati. Le due donne, una musulmana e una suora cattolica, pregarono assieme. La preghiera come conforto, appiglio, speranza. Se nelle ore del Natale del 1952, un bambino era stato sepolto; mezzo secolo dopo, nel 2007, in quello stesso giorno, nacque la sorellina di Nasser. Il padre avrebbe voluto un maschio. Ma quella bambina era sana. Scalpitò e pianse con tutta la forza che aveva. A volte i miracoli avvengono. Perfino in Terra Santa.

Per approfondire

Nel 1963 nasce, in appoggio al Baby Caritas Hospital, l’associazione Aiuto Bambini Betlemme. La sua sede amministrativa è a Lucerna. La sede italiana è a Bussolengo, in provincia di Verona. Tel. 045.7158475. www.aiuto-bambini-betlemme.it.

Bethlehem, 25 febbraio

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