La musica e la danza a Sabratha |
Da molto tempo non scrivo più attorno alla Libia. Non vi sono mai più tornato. E non voglio spulciare ogni notizia che appare nel web per riprendere a scriverne copiando storie impossibili da verificare.
Non riesco a immaginare né Tripoli, né Bengasi. Ho imparato
che quanto si scrive, quanto si legge su un giornale o su un blog è solo una
piccola parte della realtà. E’ la realtà di chi scrive. Ognuno di noi, vuole
vedere cosa vuol vedere.
Oggi faccio un’eccezione al mio silenzio. Tra le tante
brutte notizie (arrivano solo brutte notizie dalla Libia, nessuno che ci
racconti qualche quotidianità) me ne colpisce una: il nuovo assalto al cimitero
‘italiano’ di Hammangi. Eppure a
scorrere qualche sito e le pagine del Lybia Herald appena al di là del Mediterraneo l’ultimo finesettimana è
stato drammatico.
Una vecchia festa di Mawled, anniversario della nascita del Profeta |
La deriva della Libia (ma anche dell’Egitto e del Libano, la
ferocia della guerra in Siria, la violenza in Iraq e, poi, a scendere verso
l’Africa si scivola verso una linea degli orrori: in Centrafrica, in Sud Sudan,
in Somalia, in Congo, nel Nord della Nigeria, in Mali….) non appare quasi più
sui giornali.
Si scopre che vi sono italiani al lavoro in Cirenaica,
regione secessionista della Libia, solo quando due operai calabresi, Francesco
Scalise e Luciano Grillo, vengono sequestrati fra Derna e Tobruk (e io penso:
come mi era apparsa dolce Derna. Non potevo immaginare questa città come luogo
del fondamentalismo radicale dell’Islam). Ci si allarma per la nostra
dipendenza dal gas libico solo quando viene interrotto da milizie berbere il
terminale del gasdotto che arriva in Italia. I pozzi petroliferi sono affidati
alla protezione e al ricatto di milizie claniche.
Questa era la mia Tripoli |
Metto assieme, con poche fonti e senza controlli, gli ultimi
giorni di Libia (copio da internet, insomma). Ecco quanto è accaduto: a Tripoli
viene sequestrato Han Seok Woo, responsabile dell’agenzia commerciale
sudcoreana; a Janzour, cittadina-sobborgo a ovest di Tripoli, infuria una battaglia
fra clan di paesi rivali (undici morti e sequestri incrociati di due leader);
guerra aperta a colpi di mortaio a Sebha, nel Sud del paese, fra i tebu, popolo
sahariano dalla pelle nera, e clan arabi; milizie pro-gheddafiane si
impossessano della base aerea di Sebha e milizie di Misurata che scendono dal
Nord per aiutare l’esercito (regolare?) a riprenderne il controllo; uccisi, a
Bengasi, quattro esperti artificieri attirati in una trappola. Tutto questo
accade appena oltre il Mediterraneo. La Libia, come mille altri luoghi, è solo
un rumore di fondo nell’oceano dell’informazione.
L'ingresso al cimitero di Hamangi |
E io, come due anni fa, davvero senza una vera ragione
rispetto alla gravità di quanto accade ogni giorno in Libia, rimango colpito da
un articolo che leggo con la solita distrazione, ma si ferma nella mia testa. In
pochi giorni, fra venerdì e lunedì, uomini armati, con le bandiere verdi dei
gheddafiani, hanno fatto irruzione due volte nel vecchio cimitero ‘italiano’ di
Tripoli. Non è lontano dal centro della città. E’ conosciuto come Hammangi. Una
volta qualcuno mi spiegò che si poteva tradurre con ‘Bagno Turco’. Non ne sono stato
mai sicuro, c’è assonanza, è vero, ma non mi torna, non può essere. Anche
durante la guerra civile (perché adesso non è la stessa guerra con continua?) i
fedeli del rais assalirono il cimitero.
Non so che fine abbia fatto Bruno. Oggi dovrebbe avere quasi
80 anni. Un vecchio italiano. So che non se andò quando, due anni fa, gli
italiani vennero evacuati. Era il custode del cimitero, è l’uomo che aveva
saputo salvarlo e ‘ricostruirlo’ dopo decenni di abbandono. I giornalisti italiani, nei giorni di stanca, andavano da lui per scrivere il loro articolo quotidiano.
Hammangi, luogo di sepolture, era la sua vita. So che, nelle prime settimane della guerra, Bruno era riuscito a portare a casa l’archivio degli oltre seimila uomini e donne sepolti in quel cimitero. Lui lo aveva ricomposto in venti anni di lavoro meticoloso.
Hammangi, luogo di sepolture, era la sua vita. So che, nelle prime settimane della guerra, Bruno era riuscito a portare a casa l’archivio degli oltre seimila uomini e donne sepolti in quel cimitero. Lui lo aveva ricomposto in venti anni di lavoro meticoloso.
Hammangi era l’ultima dimora terrena non solo dei coloniali
italiani (qui venne sepolto anche il più irrituale dei gerarchi fascisti, Italo
Balbo, caduto con il suo aereo nel primo giorno della seconda guerra mondiale) o
dei cristiani di Libia. Negli ultimi anni, questo cimitero aveva accolto i
corpi dei migranti, di chi era annegato nel tentativo di raggiungere l’Italia,
di chi non era di religione islamica. Come se qualcuno avesse mai chiesto la
religione ai senegalesi, ai cinesi o ai nigeriani sepolti qua?
Il cimitero di Hamangi |
Sono entrato la prima volta al cimitero di Hammangi molti
anni fa. Allora era in rovina. I sepolcri erano spezzati, lapidi in frantumi,
ossa disperse. Era stato abbandonato dopo che gli italiani, nel 1970, erano
stati cacciati, da un giovane Gheddafi, dalla nuova Libia rivoluzionaria. I
miei passi furono di malinconia.
La mia Tripoli |
Molti anni dopo un amico mi convinse a tornare ad Hammangi.
Aveva appena scritto un racconto sul cimitero e sull’impresa compiuta, in
solitudine, da Bruno e da sua moglie Nura. Il cimitero adesso era custodito.
Grandi restauri erano stati compiuti grazie a finanziamenti del governo
italiano e al consenso della Libia. Era stata restituita dignità a questo
luogo. E il merito era tutto di Bruno e di sua moglie. Che avevano ricostruito
le storie di tutti gli italiani che lì sono sepolti. Avevano consentito ai
parenti di rintracciarli. Avevano dato pace alle loro ossa. Bruno parlava con
questi morti. Era come se, e non sembri assurdo, avesse salvato la vita
oltre la morte. Aveva donato una memoria a chi era stato dimenticato. Quando
assieme entrammo in un lungo corridoio di tombe, Bruno mi annunciò alle ossa:
‘Ragazzi, abbiamo visite’, disse a voce alta.
Il vecchio guardiano di Leptis Magna |
Ora leggo che per due volte, in pochi giorni, le bande
gheddaffiane (ma siamo sicuri che le definizioni abbiano qualche valore in
questa follia libica? E’ stato aperto un vaso di Pandora e la guerra è di tutti
contro tutti) hanno assalito il cimitero. Non so se il custode libico si sia
salvato. Leggo della sua casa devastata, della sua auto incendiata. Non so
niente di Bruno.
La mia Tripoli |
Posso solo riprendere in mano il libro che Luca Cosentino (‘Da Tripoli al Messak’, edito quattro
anni fa da Terre di Mezzo). C’è un bel racconto dedicato a Bruno e al cimitero
di Hammangi. Tutto quello che posso fare è riprendere il racconto di Luca. Eccone
alcune righe:
‘…..Bruno mi attende seduto su una vecchia panchina,
accanto alla moglie. Sarà lui ad accompagnarmi in questa visita ed a
raccontarmi le vicende di questo cimitero e delle persone qui sepolte. Bruno
infatti lavora qui da quasi 20 anni ed è grazie a lui che è stato possibile
portare a termine questo progetto di risistemazione, apparentemente un normale
progetto di edilizia civile che però ha avuto in questo caso dei risvolti
davvero fuori dal comune. Si doveva lavorare infatti su un terreno devastato,
dove i corpi affioravano tra gli sterpi e i riferimenti erano del tutto
smarriti. Occorreva ricostruire la geometria originale del cimitero, ritrovare
le file e le tombe, riconoscere i corpi, risistemare le spoglie in nuove
cassette, provvedere alla classificazione e all'inumazione nei nuovi ossari.
Mentre beviamo un thè verde all'ombra dei grandi eucalipti dell'ingresso, Bruno
racconta come la parte più complessa sia stata proprio quella di dare un nome a
tutti i corpi ritrovati sopra e sotto terra. Un lavoro durato anni e realizzato
a partire da deboli tracce, una croce ancora in piedi, una bara con un nome,
dei vecchi registri nell'ufficio amministrativo. Un incrocio di dati e
informazioni da far coincidere, come un'interminabile sciarada.
Il cimitero di Tripoli |
Bruno ha svolto questo compito immane con incredibile
tenacia, aiutato solo dalla moglie e da un pugno di operai egiziani pagati alla
giornata dall'ambasciata italiana. Per quasi vent'anni ha consacrato tutto il
suo tempo libero a questo progetto, senza che gli fosse stato richiesto e senza
essere pagato. Quando gli si chiede perché abbia fatto tutto questo, lui
risponde con disarmante semplicità che è solo compassione per quei poveri corpi
di italiani morti lontano dal suolo natio e dalle proprie radici. Compassione
per chi, come lui, non ha vissuto mai in Italia ma è italiano e deve aver
diritto ad un fazzoletto di patria attorno alle proprie spoglie. Parole che
esprimono un'idea comune eppure toccante, un concetto che suona nobile anche a
chi, come me, è abituato a diffidare della retorica che sempre si associa al
concetto di patria…’.
Firenze, 22 gennaio 2014
Firenze, 22 gennaio 2014
che malinconia in questa "tua" Tripoli che è anche la "mia" Tripoli
RispondiEliminae che rimpianto per non esser stata ad Hammangi dove si dovrebbe trovare il mio bisnonno, quando ho avuto l'occasione di essere a Tripoli
Ciao, Dona. Proverò a capire dove è Bruno, il custode del cimitero. Sono certo che sia a Tripoli.
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