mercoledì 4 dicembre 2013

Il tè di Mohammed

Mohammed nel 2007
 
Il viaggio sta finendo. E allora posso barare un po’. Ogni volta che risalgo il vallone del torrente Saba mi fermo da Mohammed. Mohammed Tchai Tchai fu il primo afar che incontrai nei confini della loro terra. Questa è una storia di molti anni fa. L'ho già scritta, la ricopio:

‘Albeggiava, quando, anni fa, per la prima volta, arrivai alla sua acacia. Aveva i capelli lunghi come un hippie di altri tempi. Curiosi riccioli ondulati che non si aggrovigliavano, ma scendevano fin sulle spalle. Era fatto di spigoli, Mohammed. Aveva occhi mobilissimi e irriverenti. Un sorriso stranissimo e perenne. Il cielo si era appena schiarito, il tè era già pronto. Venivamo da Berhale. A piedi. Eravamo partiti che era ancora buio pesto. Mohammed ci sorprese. Un miraggio. Sotto l’acacia c’erano le braci di un fuoco, tre sassi come sedili, tazzine di plastica colorata. Appesi all’albero i sacchetti del tè, dello zucchero, della farina di teff. Una burra poco distante. La sua famiglia dormiva ancora. Mohammed era ed è uno straordinario barista. Questo era ed è ancora un bar. Il luogo più bello che, quel mattino, potessi immaginare. 

Mohammed nel 2010

Guardai con lentezza Mohammed. Lui sostenne il mio sguardo. Ci venne da ridere. Quest’uomo ci mise mezzo secondo a demolire decine e decine di stolti libri che dipingevano come feroci gli afar. Tirai fuori un articolo scritto da un cronista di successo: ‘Feroci come il deserto, spietati perfino con sé stessi, elusivi come una cupa leggenda’. Rialzai gli occhi e lo guardai nuovamente. Con premura mi invitò a sedermi e si mise a sfaccendare con tazzine e acqua bollente. Un paio di bambini uscirono dalla capanna. Clan familiare. Nomade stanziale. Bevvi il tè più buono della mia vita. Mi godetti il lampo di colori del cielo. Ero in pace con me stesso. Appallottolai il foglio di giornale con l’articolo e osservai, con soddisfazione, le braci dei carboni consumarlo tranquillamente. Chiesi a Mohammed se potevo fotografarlo. Fece un gesto con la mano e scomparve nella sua burra. Riapparve con una splendida camicia bianchissima made in China con su stampigliato un fantastico drago alato nero. Non aveva dimenticato il jile, il suo pugnale. Sul manico, aveva sistemato un fiore di plastica rosso. Un tempo, mi avevano spiegato, voleva significare un nemico ucciso, quel mattino mi apparve come un vezzo elegante. C’erano tre, quattro diaframmi di differenza fra la camicia e il suo viso. Lui si inginocchiò davanti all’ingresso della capanna, una mano appoggiata a un bel bastone’.

Mohammed nel 2012

Ogni volta che risalgo il vallone del Saba mi fermo da Mohammed. Costringo chi è con me a seguirmi fino alla sua capanna. Adesso è un piccolo patriarca: i suoi figli e i suoi nipoti si sono moltiplicati. E’ un accampamento familiare, il suo. Il suo viso si è affilato, le rughe hanno inciso gli anni. A volte si taglia i capelli. Ma, credo, che li preferisca lunghi. Ogni volta mi invita a rimanere per la notte. Prima o poi dovrò accettare. 

Quest'anno non ho avuto fortuna: Mohammed non era a casa. Era andato al paese. Una piccola fitta la cuore. Mi dico sempre che dovrei avvertire la sera prima. Ma sua moglie e sua figlia erano alla capanna-bar. Sua moglie ha schierato i figli da una parte della capanna e i nipoti dall’altra. Hanno offerto il tè. Come sempre il più buono del viaggio. Niente più tazzine di plastica. Ma quattro bicchieri barocchi: cristallo e fregi dorati, quasi delle brocche, segno di ospitalità. Abbiamo bevuto rumorosamente, lasciato le foto, un abbraccio, un andare, un restare. 

Sì, dovrò accettare l'invito a passare la notte. Accadrà?


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