lunedì 26 agosto 2013

Gli ossari di Taranto


La targa della Maledizione al quartiere Tamburi
Cielo d’estate sui due mari di Taranto. Mi chiedo da che parte spiri il vento: so che se viene da Nord e da Nord-Ovest respirerò le polveri di ferro e veleni dell’Ilva. Se, invece, è scirocco, toccherà a quelli di Statte di avvelenarsi. Il mare è azzurro-intenso. Mi appare splendente e bellissima la città più inquinata d’Italia. All’ingresso del Borgo Vecchio attorno a una fontana, lastroni di cemento sono un omaggio all’acciaio. Taranto ha venduto l’anima alla fabbrica. 


Le case di Tamburi
Vincenzo ha 56 anni e un lavoro abusivo. Da più di venti anni, tiene le pulizie di tombe del cimitero di San Brunone, il cimitero di Tamburi, il quartiere ‘sopra’ il quale sono state costruite le ciminiere dell’Ilva. Gira per il cimitero con secchi, stracci e scope. La gente gli affida il decoro della memoria dei propri cari. Ci sono confraternite, congregazioni, associazioni che si organizzano per assicurare sepolture e loculi ai propri iscritti. 




Le ciminiere e il cimitero
Vincenzo ci guida verso gli ossari. Mi appaiono come condomini mortuari, sono palazzine a più piani che segnano il confine fra il cimitero e l’Ilva. Vincenzo ha le chiavi di uno di questi caseggiati per morti. Tre piani, saliamo in ascensore, ancora una rampa di scale, una piccola porta ed ecco il tetto. Balcone privilegiato sulla fabbrica. Belvedere sulle colline di un pianeta ostile. E’ un cratere quanto sta sotto i nostri occhi, è una innaturale attività vulcanica. ‘Benvenuti in Paradiso. Ecco Taranto Beach’, dice Vincenzo e si gode la sorpresa disegnarsi sul nostro viso. E il panico. ‘Vi ho portato in un bel posto, no?’. Una strada, una cortina di alberi malati e si alzano le montagne di polveri ferrose annaffiate da getti di acqua. Troppo facile scrivere: questo è un gioco dell’inferno. Chi si è inventato il nome di ‘parchi minerari’ per questo paesaggio feroce? 


L'Ilva visti dagli ossari
Questo è il panorama migliore che si possa avere al mondo sul progresso. La sua bellezza crudele è perfetta: un cromatismo di morte, i camini a tinte circolari, la nuvola di polveri, l’intrico di nastri trasportatori, i macchinari gialli che si stagliano sulla ruggine. Un paesaggio deserto con scrosci d’acqua a combatterne l’aridità inerte. A cercare vanamente di fermare le polveri. Dovrebbero fare visite guidate notturne ai tetti degli ossari del cimitero: la notte l’Ilva è uno spettacolo, i fumi arrossano il cielo, si attorcigliano attorni agli altoforni, la produzione non si arresta, macina i suoi profitto, i suoi salari e i suoi veleni. Questa è una sovraeccitazione industriale. Ne capisco la meraviglia e la paura. 


Tamburi
Le case di Tamburi sono a quattrocento metri da questa caldera dai vapori di peste. La targa della ‘maledizione’ degli abitanti di queste case avvelenate è appena fuori la rete in cui qualcuno sostiene si dovrebbero impigliare le polveri della morte lenta.
Vincenzo guadagna dieci, quindici euro al mese a tomba. ‘Devo pur far mangiare la famiglia’. Il figlio fa il finanziere al Nord. ‘Almeno lui se ne è andato da questa città che si è inginocchiata di fronte a dei farabutti’. E’ arrabbiato, Vincenzo. Passa le dita su una lapide di marmo. Le sue dita si sporcano di grigio. ‘L’ho pulita mercoledì scorso. Oggi è lunedì. Nei giorni di vento è inutile affannarsi: pulisci al mattino e al pomeriggio è già tutto ricoperto di polveri’. Il cimitero, come il quartiere di Tamburi, ha una patina rossastra. Deve essere esserci un’ordinanza comunale: quasi tutte le case hanno tinte aranciate. Per non far vedere i rivoli di polvere, gli sbaffi di ruggine, il deposito di anni di metalli pesanti. I marmi delle tombe hanno cambiato colore. Marmo rosso di Taranto, dunque. Un Cristo alza le sue braccia quasi a benedire (o maledire) l’orizzonte delle ciminiere.





Polverino al cimitero di Tamburi



La mano e il polverino




















I miei amici vanno in cerca delle fontanelle del cimitero. Mi dicono che sono state pagate dall’Ilva. ‘Ci siamo venduti per un piatto di lenticchie’. Hanno una foto che mostra il sindaco orgoglioso del suo successo. Vogliono scattare una nuova immagine.
Per mesi, non si sono seppelliti i morti a Tamburi. Troppo inquinata la terra per essere rimossa dai manovali. A Tamburi i bambini non possono giocare nelle aiuole e nei giardini. Troppi veleni nelle sabbie. Qui crescono solo erbacce che l’estate ha spossato in una sterpaglia oscena. I quartieri sono ‘stecche’ di abitazioni a parallelepipedo. Mi ricordano le peggiori città della Romania di Ceausescu.



Il Cristo che benedice l'Ilva
C’è un Cristo che benedice i camini dell’Ilva. Nemmeno il più spudorato realismo sovietico avrebbe potuto pensare a un Gesù immenso, in piedi su uno svincolo stradale. Sarà alto dieci metri e fa parte del colossale mosaico all'interno della chiesa di San Leonardo Murialdi, ottocentesco prete torinese (leggo che si battè per il riposo festivo, contro il lavoro dei bambini, per la giornata lavorativa di otto ore). Mi raccontano che il restauro di questa chiesa, grande  e vuota come un transatlantico spiaggiato, è stato pagato dall’Ilva. Dietro l’altare Cristo davvero ha sguardi di benevolenza verso la fabbrica. Alza le braccia in un segno di pace. Lo osservano, devoti e intimoriti, un marinaio, un operaio con casco, un manager, un muratore. Un pescatore sbroglia le sue reti. L’unica donna dell’affresco è di ritorno dal mercato con la sporta dei pesci. Chi ha concepito questo mosaico alto venti e più metri, dal cielo dorato?

La lapide della maledizione è a duecento metri dal Cristo della benedizione.







Tamburi








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