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Weynay (credit Sarah Lee, per il Guardian) |
Guardo il suo viso e lo riconosco. Magro, magrissimo, ma con
muscoli forti, abituati alla corsa. Muscoli che sembrano elastici. Alto. Più di
un metro e ottanta. Grandi orecchie. Naso prominente. Spigoli dappertutto. Andatura oscillante. Un camminare da atleta e da ragazzo
degli altopiani. E’ nato nel 1994, Weynay. Diciotto anni fa. Immagino, nel
giorno della tua nascita, la felicità dei suoi genitori al villaggio di Gheza
Hamle, là dalle parti di Adi Qwala, quasi ai confini con l’Etiopia. L’Eritrea
era indipendente da un anno. Erano tempi di stupore, quelli. Quasi non si
riusciva a credere nella libertà. Il mondo si era capovolto, il sogno
impossibile degli eritrei era diventato vita quotidiana. Niente più guerra,
pace nelle campagne coltivate a teff dell’Eritrea. Un paese che nasceva e tu
con lui. Il raccolto fu abbondante nel 1994. I genitori di Waynay guardavano
con orgoglio quel loro nuovo figlio.
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Il campo di battaglia di Adi Qwala (anno 2000) |
Come hai fatto a cominciare a correre, Weynay? Chi ti ha
messo sulla pista dei tremila siepi? In Eritrea, come in Etiopia, si corre. A
duemila metri di quota. Viene naturale. Ben pochi possiedono un auto. Si corre per andare a scuola, si
corre per sorvegliare i campi, si corre perché è il destino dei tuoi muscoli.
Ma l’infanzia di Weynay è durata solo quattro anni. Nel 1998, il
miracolo della pace ai confini del più grande altopiano dell’Africa si spezzò
in una nuova guerra fra Eritrea ed Etiopia. Ad Adi Qwala si combattè una delle
battaglie più sanguinose di un conflitto assurdo e indecente. Ho visto quel campo di
guerra. Forse ho sfiorato la famiglia di Weynay mentre fuggiva dal villaggio.
Uno dei suoi fratelli è morto in quella guerra.
Dodici anni dopo quella guerra, questa estate, ti ho
ritrovato a Londra, Weynay. Indossavi un assurdo completo grigio. Come se non
esistesse un costume nazionale eritreo. Cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Portavi la bandiera del tuo paese.
Dodici atleti dell’Eritrea alle Olimpiadi di Londra. Il vestito, posso
giurarlo, ciondolava da ogni parte. Tua madre (c’è ancora tua madre, Waynay?)
ti guardava in televisione in silenzio. Senza un sorriso. Sapeva già della tua
decisione?
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La corsa di Weynay |
Hai corso Weynay. In un pomeriggio di agosto. Un po’ ci hai
provato a fare di più. Sapevi che potevi riuscirci, ma i pensieri nella testa
ti hanno rallentato come una zavorra. Otto minuti e trentasette secondi per
correre i tremila siepi. Sei arrivato decimo. La tua Olimpiade è durata quei pochi giri di
pista. Una sola corsa. Cosa hai pensato all’ultimo ostacolo quando i piedi si
bagnano nella pozzanghera? Cosa hai pensato quando hai tagliato il traguardo?
Raccontano che, all’ultimo giorno, quando i corridori
dell’altopiano guardavano, con invidia leggera, un ugandese pelle e ossa
vincere la maratona, tu sia uscito dalla sala della televisione senza dire una
sola parola. Avevi già preso qualche accordo, Weynay. Le guardie armate del
villaggio olimpico fermano chi entra, non chi esce, a quanto pare. Non è una
prigione, come il tuo paese. Sei uscito per le strade di Londra. Qualcuno ti
aspettava. Forse non eri solo, se è vero che altri tre atleti eritrei non hanno
ripreso l’aereo per Asmara. Quattro su dodici non sono tornati a casa. Dicono che altri ventuno africani non siano tornati a casa. Quando mai si può ripetere una simile opportunità di fuga. Con un visto valido alcuni mesi.
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1993, Eritrea, festa per l'indipendenza del paese |
Ma tu, Weynay, ragazzo allampanato, portabandiera del tuo
paese, hai deciso che non era giusto rimanere in silenzio. Non so dove sia la tua
famiglia, ma se è in Eritrea non saranno tempi facili per i tuoi fratelli, per
i tuoi genitori, per i tuoi nonni. Ti guardo e so quanto ti è costata questa
decisione. E hai voluto farla conoscere a quanta più gente possibile. Ci vuole coraggio. Hai parlato, con la voce bassa dei contadini dell'Eritra, con quel giovane giornalista inglese che è riuscito a trovarti (sai l’inglese, Waynay?). Tenendo gli occhi in fuga dal suo sguardo. Li hai alzati, senza sorridere, di fronte a quella fotografa del Guardian che aveva bisogno di un tuo ritratto. Hai
raccontato della ferocia di chi governa il paese. Del futuro che, per i ragazzi, non esiste in Eritrea. Sempre deciso da altri. Del destino di una guerra perenne. Ogni mese,
da anni, hai visto ragazzi fuggire. Sai della sorte di chi veniva catturato.
Svanivano in caserme dalle mura sbrecciate. Hai visto la crudeltà di altri
ragazzi pronti a spararti addosso appena muovevi un passo verso la libertà. Per
questa oscenità tuo fratello era morto?
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2000, in marcia verso la guerra |
Nel 2009, in Kenya, tutta la squadra di calcio dell’Eritrea
si dileguò dopo una partita. I ragazzi vogliono solo scappare da un
paese-prigione. Una terra che è la mia terra. Come un giornale titolò un mio
articolo quasi trent’anni fa.
Immagino i giorni di Weynay. Il disorientamento di un
ragazzo di diciotto anni alle prese con una vita tutta da ricostruire. Immagino
i colloqui con i poliziotti e con gli uomini dell’Immigration. Immagino le ore
della sua solitudine. Ha parole semplici, Waynay: ‘L’Eritrea è il mio paese, ma
là la vita è terribile’. Tutto qui. Dicono che anche quest’anno il raccolto sia
stato buono a Gheze Hamle. Conosco la bellezza del teff che oscilla al vento sull’altopiano.
Come ogni notte, sulla frontiera, qualcuno cerca di scappare.
Il vestito grigio è rimasto sul letto della tua camera al
villaggio olimpico. Mi piace pensare che
ti sia portato via la bandiera. Ricordo la tua corsa a Londra. A un certo punto
hai sgomitato per un piazzamento. Continua a correre Waynay.
Matera, 18 luglio
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