martedì 29 marzo 2011

La forza dell'Erta Ale

La prima volta



La forza del vulcano
Gli uomini sono fatti così...
Il vulcano ha cambiato la sua pelle. Il lago di lava, in poche settimane, dallo scorso novembre, ha risalito, metro dopo metro, le pareti del suo cratere. Ottanta metri verso l’alto, ha raggiunto i bordi del catino e, con lentezza, ha cominciato a defluire nel grande bacino della caldera. E’ impressionante: lingue di lava si sono accartocciate su loro stesse, hanno cercato strade per fuggire aggirando ostacoli che loro stesse costruivano. Roccia liquida. Che trasforma geografie. Le colate si sono attorcigliate su loro stesse. Si sono annodate e aggrovigliate. La Terra, qui, vetta e cuore della ‘montagna che fuma’, sta modificando sé stessa. L’Erta Ale si comporta come quando è nato sul fondo di un oceano: come un drago agita minacce di fuoco e fa uscire dalla sua pancia lava fredda (oltre mille e duecento gradi), lava lenta, lava nerissima. E, adesso che si è nuovamente solidificata, scricchiola sotto i piedi. A volte si spezza, ondeggia, si crepa. E’ emozione camminarci sopra. Siamo sventati, ma preferiamo non sapere i rischi che corriamo.

Avvicinarsi al vulcano
La lava si attorciglia



Erano oltre quarant’anni che il lago dell’Erta Ale non tracimava. Nei primi anni ’70, fu il vulcanologo franco-armeno Tazieff a disturbarlo. Dovrebbe essere lasciato in pace, questo vulcano. Da qualche tempo l'Erta Ale, forse stanco dei turisti che hanno affollato i suoi panorami disturbando la sua irruente quiete, ha deciso di darsi da fare. Ora ha nervosi gesti di scortesia. Come una tigre in gabbia. E’ diffidente verso tutti gli intrusi. E, in questa notte che passiamo assieme a lui, ha deciso di mostrare tutti i suoi trucchi ed effetti speciali. Esplosioni, maremoti magmatici, onde di lava, fuoco purissimo, crolli devastanti. Da settimane sta mostrando la sua forza. E la sua bellezza capace di ingannare come una sirena. Già lo scorso anno, l’Erta Ale aveva dato segni di improvvisa vitalità, non ne poteva più di rimanere ingabbiato nelle profondità di un cratere. La lava, in quei giorni già lontani, aveva cominciato a fuoriuscire dal vulcano più a Nord della caldera. I capelli di Pele, filamenti vetrosi di materiali lavici, già volavano verso il cielo: segnale evidente dell’inquietudine del vulcano. Alla fine, il cuore dell’Erta Ala ha cominciato la sua risalita.

La lava nuova
Il lago ha costruito il suo tappo. Si è negato una libertà imprigionata. Ha rischiato di scomparire pur di uscire dalle gabbie dorate nelle quali era costretto ad agitarsi. Ha raggiunto il livello più alto del cratere, è uscito dai suoi confini e ha cominciato a scivolare sulle pendenze della caldera. Ma alle sue spalle formava immediatamente una sorta di cemento compatto che, con il passare delle settimane, si è solidificato. Apparentemente il vulcano è scomparso per giorni. Il fuoco diventava pietra e bloccava le fiamme sottostanti. Le ricacciava nel ventre della Terra. Ma il magma ha una potenza inarrestabile e, di continuo, si riapriva la strada verso la caldera. Noi abbiamo camminato su questo tappo di lava senza nemmeno immaginarlo. Ignorando quanto fosse spessa e resistente. La fossa del cratere si era riaperta e il vulcano barriva, mugghiava, protestava. Abbiamo voluto avvicinarci. Dicono che quando fa così preannuncia nuovamente la sua irrequietezza. Vapori di zolfo rendevano irrespirabile l’aria.

Tibet in Dancalia


Qualcuno, sul versante più lontano del cratere Sud, ha piantato due pali e disteso piccole bandierine tibetane. Colori arlecchino sul grigio della lava. Segno di venerazione. Una preghiera al fuoco, al vento, all’aria rovente, alla polvere di lava. Poco lontano, un afar scuote le sue mani con la cenere, si sfiora le tempie, si alza, stende un piccolo tappeto e poi si inginocchia al suo Dio. Luogo sacro, il vulcano.


Il villaggio dei turisti


Villaggio turistico sulle sponde della caldera. C'è un guardiano per i sismografi lasciati qui dai vulcanologi inglesi. Amudin viene pagato 800 birr al mese per controllarlo. Ma, non appena finirà la stagione turistica, tornerà al suo villaggio. La scienza deve tenerne conto. Ci sono custodi delle capanne ed esattori degli affitti. Appena quattro anni fa, la prima volta che salii quassù, non vi era alcun segno di vita sul vulcano. L’anno dopo vi erano due capanne a igloo di pietra. Oggi sono almeno cinquanta. Davvero, un villaggio. Costano 200 birr al giorno. Sono sotto il controllo dei notabili di Karsawaat. Economia del vulcano. Business eccitante per i nomadi dei vulcani. Ecco cosa fa il turismo. Credo che vada bene così. Almeno si smetterà di dire che questo è un luogo desolato.

Le notti non sono più solitarie in cima all’Erta Ale. Via vai di turisti che arrivano a tarda notte. Clangore di ak-47. Cammelli che sbuffano. Cammelli impastoiati. Ben poco da brucare. Voglia di riposare. Passi incerti ed emozionati di chi arriva qui per la prima volta. Le voci dei cammellieri si rincorrono. Guardo il vulcano. Non so fare altro.
Erta Ale, 19 febbraio

Perdonate l'intermittenza del diario dalla Dancalia. Sono giorni di altre storie. Urgenti. E ho scoperto che chi usa le tecnologie deve essere, in realtà, un abitudinario. Come si fa con l'anarchia? E in questi giorni c'è da prestare attenzione e pensiero solo alla Libia. Scusatemi. Il diario continuerà, probabilmente a strattoni

mercoledì 23 marzo 2011

La finzione della Libia

La Libia che io amo


Al mondo occidentale piacciono le finzioni. Piace parlare di democrazia. Il mondo africano e il mondo arabo, a loro modo, si adattano. E creano la scenografia che l’Occidente vuole. Con cinesi e indiani si va più per le spicce, con loro le ipocrisie sono bandite e si parla di affari senza camuffarsi dietro parole vuote.

Gheddafi e la sua Libia sono una storia esemplare. Gheddafi è un genio dell’arte da palcoscenico. Un maestro del teatro del grottesco. Ha costruito un sistema falso e perfetto. Perché Berlusconi (non solo lui: tutti i leader occidentali e mondiali. Tutti, soprattutto gli italiani: da Andreotti a Craxi, da Prodi a D’Alema) si sono inchinati di fronte al rais beduino e hanno fatto umilianti attese di fronte alla sua tenda (solo Gianfranco Fini, per la verità, si è spazientito e, stufo di aspettare, se ne andò sbattendo fogli sul tavolo). Chissà perché tutte queste genuflessioni non dovute? In fondo Gheddafi non ha nessuna carica in Libia. Cittadino fra i cittadini. Certo, lui è solo il qaid, il Capo. Ma, ufficialmente, non ha mai rappresentato il paese. Alzi la mano chi sapeva dire senza incertezze il nome del primo ministro libico? Ma un primo ministro ci vuole, comprimario della finzione. La Libia, negli ultimi quarantadue anni, è stata Gheddafi. E la sua famiglia allargata (molto allargata). Alcuni futile esempi: a Tripoli, in una notte, scomparvero le cunette rallenta-traffico: corse voce che non piacevano a uno dei figli di Gheddafi. L’ora legale è perenne in Libia: pare per volere di Gheddafi. Tre anni fa vennero chiuse tutte le sedi diplomatiche libiche in Italia: non dovevano fornire assistenza al figlio Saadi, in fuga d’amore sulla riviera ligure. Il rais ha sempre avuto il tempo per le minuzie. Non solo per le minuzie: le feste islamiche, in Libia, hanno calendari diversi. A dettare l’ostilità che divide il rais dai regnanti sauditi, custodi dell’ortodossia musulmana.

Prendete il dilemma che deve inquietare (chissà? Magari non dormono sonni tranquilli lo stesso) i vertici di Unicredit, la più importante banca italiana ed europea. E’ ben noto: il vicepresidente è libico. Si chiama Farhat Omar Bengdara. Era il governatore della Bank of Libia. Gheddafi, irritato dal suo silenzio pavido, lo ha dimesso e lui, ultima traccia che io conosca, se ne sta a Istambul. In realtà fa la spola fra la Turchia, la Germania e i paesi del Golfo. Dove ha mandato la famiglia. Notazione: Bengdara è nato a Bengasi. Ha 46 anni. La Libia, anche questo è ben più che pubblico, possiede più del 7% di Unicredit. Con due soggetti: la Bank of Libia e il Fondo Sovrano. Due soggetti diversi? Certamente, dal punto di vista legale. Ma le sue casseforti (con buona pace dell’ex-amico Tarek ben Ammar, autorevole finanziere tunisino) sono nelle mani di Gheddafi e del suo clan. Ma il mondo non vuole un clan tribale, vuole l’artefatto di una banca centrale e di un fondo sovrano. Gheddafi, allora, lo costruisce, tanto le chiavi le possiede lui. E se Bengdara si dimettesse (già, per statuto della banca non può certo essere dimesso da Ghedafi), cosa accadrebbe? Il numero due di Unicredit verrebbe ancora nominato da Gheddafi? Tranquilli, Bengdara non si dimetterà e Unicredit ha già fatto sapere che il consiglio di amministrazione funziona benissimo anche senza di lui. Sono contento: Unicredit, confesso, è anche la mia banca. E, ultima notizia, a Berlino già suggeriscono il nome di Bengdara come possibile uomo della transizione post-gheddaffiana. Si vende la pelle dell’orso prima di averlo catturato. Ma c’è della abilità in questa voce. Bengdara, dalle sue parole, appare perfetto. Come Ponzio Pilato.

Bell’imbroglio legalitario per l’Occidente che ama moltissimo le ipocrisie. Tranne pentirsene: cenere sul capo per Howard Davies che si è dimesso da direttore della London School of Economics (che ha ricevuto milioni di sterline da Saif al-Islam, figlio di Gheddafi. Adesso è stata avviata un’indagine perfino sulla tesi di dottorato di Saif). Davies si è dimesso, of course, anche da consigliere del Fondo Sovrano libico di cui faceva parte (perfido, Davies: ha scritto che il governo inglese era d’accordo con questa sua scelta). Si è dimesso dal fondo sovrano libico anche Marco Tronchetti Provera che, a differenza del suo collega inglese, non ha rinunciato all’ipocrisia: lui, fa dire, si è sentito colpito dalle disgrazie del popolo libico. Chissà a cosa pensava quando ha accettato la carica? Per inciso: il padre di Afef, moglie di Tronchetti Provera, è stato un potente diplomatico, uomo-chiave nei rapporti fra Tunisia e Libia. E si racconta che il fratello di Afef sia stato compagno di università, a Vienna, di Saif. Già, non stavamo parlando di clan?

Gheddafi è un genio: ha creato la finzione perfetta, un involucro, caro alle forme dell’Occidente, per nascondere gli equilibri del suo potere tribale. Dove siamo stati tutti, in questi anni? Abbiamo fatto finta che la Libia fosse un paese con un governo, istituzioni, banche centrali, società, comitati popolari e oggi veniamo svegliati bruscamente e solo oggi gli accademici, silenziosi o quasi in tutto questo tempo (non è vero, ma i loro pensieri sono stati clandestini), ci dicono che mai le trentadue (o trentasei? O 140, tenuto conto dei sottoclan?) tribù e clan hanno lasciato il loro potere.
Roma, 23 febbraio
  

martedì 22 marzo 2011

Erta Ale

Alba sul vulcano



E alla fine, non appena sorge la luna, cominciamo la salita verso la vetta del vulcano. Questa è una delle ragioni dei turisti: si viene in Dancalia per raggiungere i crateri dell’Erta Ale, la Montagna che Fuma.
Quattro ore di cammino. Il vulcano è acquattato. Non è altezzoso. Non si impone. Si nasconde. Si è costruito con la sua stessa lava.
I primi passi sono i più faticosi. La caldera appare troppo lontana. Noi sappiamo del tempo che ci vorrà. I passi si muovono in sabbia di cenere. I piedi affondano. I pensieri scompaiono. La lava è uno specchio metallico che riflette la luna. L’Erta Ale nasconde la sua terribile magnificenza dietro un profilo senza asperità. Non assomiglia a un vulcano. Sembra una innocua collina.

In cammino verso il vulcano


Piccole carovane di contrabbandieri percorrono sentieri paralleli ai nostri. Commerci clandestini fra afar dell’Eritrea e afar dell’Etiopia. Stuoie, datteri, zucchero, sale, caffè. Ma anche armi. Un ak-47 costa diecimila birr. Poco meno di cinquecento euro. Somma immensa da queste parti. Arrivano dalla Somalia. Da Gibuti. I confini tracciati dagli errori della storia fanno aumentare i prezzi.

Ibrahim, lo scout bambino
Non contare i passi. Cammina. Ammira l’argento della lava e lo splendore della luna. I nostri piedi sulla pelle del vulcano. Dobbiamo salire fino a 572 metri. Quattrocento metri di dislivello. Tutto qui. E’ un nanerottolo, l’Erta Ale. Ma è uno dei quattro vulcani al mondo in perenne attività. Ha emesso i suoi primi vagiti sul fondo di un mare. Ma, nella sua adolescenza, era già emerso. ‘Nessuno può sapere quando la terra ha dato vita al fuoco – spiega, con un sorriso notturno, Mohammed, giovane afar di Karsawaat – Mia nonna mi ha raccontato che il cielo si tingeva di rosso quando lei era bambina’. Ci hanno affidato a scout bambini: Ibrahim avrà sedici anni e un kalashnikov alto quanto lui.

So che il vulcano ha cambiato volto dall’ultima volta che siamo saliti quassù. E’ inquieto, l’Erta Ale. Alcuni mesi fa, il lago ha risalito il suo cratere, raggiunto le sue sponde. E’ tracimato. Inondazione di lava. Sta continuando a costruirsi. Come ha sempre fatto. Quassù si ha davvero la sensazione che la Terra sia un pianeta ben vivo. E pronta a ribellarsi alla nostra presunzione.



Passi nel vulcano
Haroun Tazieff, irruento vulcanologo franco-armeno, un caratteraccio, ha scritto che ‘mai nessun dancalo ha raggiunto il cratere di questo vulcano’. Mai, prima di lui, immagino. Che vi salì nel 1967. Gli occidentali, anche quando sono simpatici e insopportabili come Tazieff, hanno sempre certezze. Io sono altrettanto sicuro che qualche afar, curioso come ogni uomo dei deserti, abbia raggiunto il fuoco di questi crateri e che poi, nelle notti, passate davanti alla sua capanna, ne abbia raccontate le meraviglie ai figli. E poi c’è stato quel Tullio Pastori, un italiano, un vero avventuriero, un gentiluomo. Un esploratore che mai ha preteso di esserlo. Ha vissuto mezzo secolo in Dancalia. E non ha mai detto a nessuno che lui, quel vulcano, lo aveva ammirato oltre un secolo fa.




Lava

I nostri passi sono lenti. Stiamo per arrivare. Questa volta non ci accolgono i bagliori rossi. La luna domina il paesaggio. Ecco la caldera. Nella notte, vapori verso il cielo. Il cratere sembra essersi spostato. E’ accerchiato da anelli di lava nuova. Ben trovato, vulcano.

Il pagamento degli scout
Un tempo, appena quattro anni fa, si dormiva al riparo di rocce sul crinale della caldera. Oggi, i business-man afar, gente sveglia, hanno costruito un villaggio di decine di capanne di pietra. Le affittano. Duecento birr a notte. Ne conto più di quaranta. Urbanizzazione primaria. Il turismo cambia i paesaggi. Il Pil (affitto di guide, scout, capanne, cammelli) si è impennato grazie al bene-primario Erta Ale. Il vulcano dà uno sbuffo più violento.

Giorni dopo mi diranno che anche le pendici dell’Erta Ale sono state cedute a compagnie in cerca di oro. Mostra tutta la tua potenza, vulcano.
Erta Ale, 18 febbraio

lunedì 21 marzo 2011

Istanti sul lago Afdera

Il lago Afdera dall'alto della strada che proviene da Sardo 


Il lago Afdera, ‘il lago dalla punta lunga’. ‘Plumbeo, tristissimo specchio d’acqua’, scrivono sulla vecchia guida della Consociazione Turistica italiana del 1938. Gli esploratori sono sempre barocchi e ossessionati dalle disgrazie: il lago Afdera è superbo, acqua che riflette il cielo con colori da impressionista. Per i colonialisti italiani, questo era il lago Giulietti. Altra ossessione dei bianchi di quel tempo: cambiare il nome ai luoghi.



Le saline di Afdera

Dieci anni fa, qua era il deserto. Vi vivevano pochi afar. Oggi è sorta una città del Far-East. Città del sale. Braccianti, migranti dall'altopiano, scorticano i loro anni lavorando nelle saline. Quasi non ci sono più sponde. Solo vasche per il sale.

Campo sul lago. Vento termico. Grande fatica. Il corpo si stanca, gli occhi si fanno pesanti e arrossati. Per la prima volta, bagno nell’acqua salata. Pochi centimetri di profondità, piedi in una poltiglia di fango. Si galleggia con facilità. Pozza calda di acqua dolce sulle rive. Quasi insopportabile il suo calore. Terra viva.


La moschea di Hairolafa

Minareto di legna e bastoni, mezza luna di ferro, torre in bilico nel nulla. Si chiama: ‘Sole con la bocca’, hairolafa, questo accampamento di vecchi nomadi sulla strada di Asayita. Qui c’è acqua, qui si può vivere. Quattro o cinquecento afar. ‘Fai vedere le foto della moschea’, mi dice un uomo. ‘Così ci aiutano a costruirne una vera’.

Mohamud Alì ha il suo carico di anni. Stringe con libidine la mano della cameriera e mi strizza l’occhio. Appartiene alla famiglia di Alì Mirah. Grandezza passata, conserva orgoglio del potere. Bastone per appoggiarsi. Vengono a trovarlo al suo tavolo. Un tempo possedeva una piantagione di cotone. Dice che la gente delle nuove piantagioni illuderà la sua gente. Hanno portato via 65mila ettari ai nomadi e ai contadini. Come sopravviveranno, si chiede. ‘Ci saranno problemi’. E poi cambierà la città. Cambieranno gli abitanti. ‘Gli afar perderanno. Ma il nostro territorio è grande. Un giorno saremo uniti’. Ho sentito queste parole molte volte.
Saluto con deferenza il vecchio Mohamud Alì. I suoi occhi si impigliano nel sedere della cameriera.

Il denaro, in questa Africa, è una ossessione priva di ipocrisia. Si chiede senza alcuna vergogna. Soldi per la birra. Soldi come status symbol. Soldi come potere. Soldi per la casa. Se hai soldi, hai donne. Si chiede ai bianchi. Hanno, abbiamo, soldi.
Voci di maligno. Non lontane da un verità che non esiste. In pochi anni di turismo, il capovillaggio ha messo assieme 8 milioni di birr. 350mila euro. In tre banche. Ad Asayita, a Nazareth, ad Addis Abeba. Un nomade allo sportello delle banche.

La regione afar ti impone quattro scout. Ma poi ne paghi due. Lasci i soldi nelle mani del capo della polizia locale.

La nostra guida sa cosa vogliono sentirsi dire i bianchi. Attore perfetto.

Grandi saluti, spalla contro spalla, sorrisi, occhi che sfuggono, che si rintanano, che si abbassano. Per poi diventare taglienti. Devi capire il momento del denaro. Dell’accordo su un prezzo. I soldi passano di mano senza che si vedano. Scompaiono negli incavi delle mano.


La donna della 'njera ad Asayita

La donna dell’njera ha ragione e rifiuta la poltiglia dei miei birr. Ho voluto fare il furbo, pagare meno di cinquanta centesimi per foto scattate a raffica.

La strada dei cinesi taglia la lava. Più forte della geologia. In un villaggio solitario, c’è un vecchio afar, Alì Mussa, dagli orecchi che sventolano, che ricorda ancora Alessandro, l’italiano che pagava un birr e venticinque centesimi a settimana e un sacco di farina per estrarre il sale. Alessandro è morto un giorno, all’improvviso, in un’estate dancala.

Mohamed Alì a Uracar
Chiedo al poliziotto: ‘Quali sono i crimini che si commettono ad Afdera?’. ‘Non parlo di queste cose’. Cento birr scivolano nelle sue mani perché ci accompagna per venti chilometri fino a un villaggio che non c’è. La corruzione non è un reato che viene commesso ad Afdera.

Mohamed Alì ha la barba rossa di hennè. La sua rabbia si stempera, si placa. Dà la mano ai bianchi. Viene circuito dall’abilità delle nostre guide. Quanti anni hai? ‘E’ da molto tempo che vivo’.
Afdera, 17 febbraio     

domenica 20 marzo 2011

Ogni martedì ad Asayita

L'uomo dei chiodi al mercato di Asayita


Consolazione dei riti. Il mercato africano appare, ai nostri occhi, caotico. Ha, invece, il suo ordine immutabile. Basato sulla continuità. Legge elementare del commercio. I mercanti saggi sanno che i clienti sono abitudinari. L’uomo delle arance, al mercato del martedì, siede allo stesso posto ogni settimana. Solo che questa volta non è stagione di arance. E quindi sulla tela stesa nella polvere oggi ci sono manghi. Conosco anche l’uomo dei chiodi: ha la bolla delle preghiere sulla fronte e un accenno di hennè sulla barba. Uomo devoto, il mercante. Ho una foto per lui, scattata l’anno scorso proprio in questo punto. Comprai dei chiodi, allora. Il suo telo cerato, lo scorso anno, lo proteggeva dal sole, oggi fa da bancarella. Sorriso di un minuto, stupore felice di un attimo, la foto passa di mano in mano. Poi l'uomo dei chiodi sceglie un regalo per noi. Un braccialetto di perline con i colori dell’Etiopia e pensa già ad altro. Il tempo degli africani ha la durata del presente. Ma anch'io sono felice del suo divertito stupore. Credo che ci rivedremo. L’istante che dura una eternità.

Cerco davvero nostalgie ad Asayita. Il mio bar sgangherato è occupato dalle capre. Andiamo in un altro. Ci accoglie una bella donna, dal sorriso lucente e l’aria di chi tiene in piedi famiglia e affari. Gli afar chiedono ‘njera e shirò. Fumo per cacciare le mosche. Tè, per noi.

Come cambierà, Asayita? Stanno per arrivare gli indiani. Sono già arrivati. A costruire, a cambiare le geografie. Ci sono centinaia di condomini ai confini del deserto della Dancalia, lo scorso anno non c'erano. Ora arriveranno migliaia e migliaia di uomini e donne dagli altopiani. E Asayita sarà diversa. Città della nuova Africa. Costruita sui megaprogetti di cinesi e indiani.  Mi dicono che verranno in dodicimila a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Serviranno per produrre etanolo. 65mila ettari, mi raccontano. E i contadini dell'altopiano e i pastori afar diventeranno salariati. Niente più agricoltura di sopravvivenza. Ci vorranno soldi per comprare il cibo. 

La nuova moschea di Asayita


Amhara dell’altopiano, gente del Wollo, colonizzeranno queste terre musulmane di frontiera. Le religioni hanno mosso i loro passi sulla scacchiera di Asayita. Una grande moschea verso Oriente. La chiesa ortodossa, preti di latta scolpiti sulla porta, è fra le case di legna e fango. Il vecchio minareto, invece, si accuccia e guarda i nuovi movimenti. Sarà un caso o una disattenzione, ma nella notte nessuna luce lo illumina. Un tempo lo avevo sempre visto splendente. I vecchi con la barba dell’hennè camminano verso la preghiera appoggiandosi al bastone.

Un sarto ripara i miei pantaloni. Calcolo che ho speso cinquanta centesimi.

Osservo i ragazzi che ordinano alla donna del bar una salsa da raccogliere con il pane. Hanno l’aria orgogliosa di chi si sente grande. Fra poco si faranno crescere i capelli e andranno in cerca di ragazze.

Il Basha Hotel
La pista per Gibuti è interrotta. Non preme a nessuno ripararla. Meglio gestirsi i guadi e i dazi per i contrabbandieri. Il vecchio del guado sta appollaiato su una spalletta crollata. Campi di displaceds nelle savane fertilizzate dall’Awash.

Finisce il mondo, camminiamo nel tramonto, nella polvere, nello stradone di Asayita.


Il padrone del Basha Hotel



Ci sarà ancora un saluto al Basha Hotel. Alemayu, il padrone, uomo degli altopiani, fuggito in queste lontananze (aveva una storia dalla quale fuggire, intuisco), ha l’aria invecchiata, ma si ostina a gestire un potere. I suoi modi sono bruschi. Ma ci conosciamo da anni e allora il saluto è sincero. Nella sua stanza (adesso è in muratura, sta abbattendo le pareti in legno marcio del suo albergo) ha le tazzine del caffè, i fiori di plastica e i tappeti. Accende i ventilatori, il frigorifero. Funziona tutto. Ci scambiamo promesse. So che tornerò ad Asayita. Come una condanna. Come un privilegio. Quest’anno le piogge devono essere state generose e la piana oltre il fiume Awash è una prateria verde. Le ragazze montano i nostri letti sulla terrazza dell’albergo. Zanzariere celesti a proteggere la nostra notte.

Asayita, 16 febbraio













sabato 19 marzo 2011

I ragazzi del Medio Oriente

Ahmad Rafat non è un ragazzo. E' iraniano di 54 anni. Sua madre è italiana. Ha visto molto nella sua vita, Ahmad. Fa il giornalista. Ha scritto 'La rivoluzione online'. Storie dei ragazzi di Tehran. Dice: 'Adesso, nel Medio Oriente, non si ribellano contro un potere coloniale. Non sono colpi di militari. Non ci sono leader. E' come se i ragazzi e le ragazze si siano impadroniti del loro destino. In prima fila, in piazza, ci sono le ragazze. Quanto sta succedendo è epocale. I ragazzi hanno scoperto la loro forza. Potranno tornare dittatori e leader, ma questa consapevolezza, questa generazione non la perderà'.
Firenze, 19 marzo

La Libia

Anni fa, al campo del lago di Gabroun

Conosco i luoghi della ribellione. Conosco le strade di Bengasi, i terminali di Ras Lanuf, lo squallore di Ajdabiya. So dell'ostilità della gente della Cirenaica a Gheddafi. Non ne parlavano, ma i loro silenzi erano sempre stati espliciti. Ho visto un vecchio, dallo zuccotto rosso, chinarsi sulla tomba di un Senussi, famiglia del re spodestato quarantadue anni fa. Da qualche tempo, dopo anni di viaggi in Libia, dopo averci scritto sopra una guida (con i suoi non-detti), si cominciavano ad ascoltare confidenze, insofferenze, irritazioni. Ma anche reticenze, paure, piccoli egoismi per non smarrire i privilegi.
Facevano di peggio governanti e business-man dell'Occidente. Tutti in fila, attese di ore, di fronte alla tenda del rais. La Libia era un bel suol d'affari. Nessuno, appena un mese fa, avrebbe previsto lo sfacelo dei campi di battaglia nel golfo della Sirte. Nè le potenti intelligence di Italia o Stati Uniti, nè gli gnomi saccenti ed elusivi delle grandi compagnie petrolifere (vero Eni?), nè i tycoon, assetati di soldi, delle imprese di costruzioni o i venditori di armi. Il potere di Ghedafi appariva inossidabile. Al più si sperava in Seif al-Islam, il figlio ragionevole. Il dubbio era che i due uomini giocassero al 'poliziotto buono-poliziotto cattivo'. La finzione, arte praticata da queste e altre parti, è saltata alle prime ribellioni. Seif è diventato sul serio 'la spada' feroce di un clan in lotta per la sua sopravvivenza.
Ma ora serve raccontare tutto questo?
Non so cosa accadrà nelle prossime ore. Il giocattolo si è rotto e il mondo, in questo nordafrica, non sarà uguale al prima. Non potevamo, come abbiamo fatto mille altre volte, assistere a una vendetta, a una carneficina. Già successo troppe volte in nome della real-politik o di un pacifismo rassicurante a casa proprio e incapace di fare i conti con la realtà. Non so cosa accadrà, ma quei pick-up con le mitragliatrici dovevano essere fermati.
San Casciano, 19 marzo 

Rift Valley

Buri, stamattina niente scuola per Ibrahim

Passi nella Rift Valley. Passi afar nella mattina. Siamo in ritardo. I cammelli sono già al pascolo. Le vacche sono gia in movimento verso gli stagni. A piedi raggiungiamo le capanne di Buri, villaggio stanziale degli afar a poca distanza da Awash, dieci chilometri fuori dalla strada che conduce a Gibuti.

Il maestro di Buri, villaggio stanziale afar, vicino alle pozze di Bilen, ogni mattina va alla ricerca dei bambini. Devono venire a scuola. Ha l’aria della persona giusta, il giovane maestro. Gira di capanna in capanna. Consapevole dei turni informali decisi dalle famiglie. Bisogna essere flessibili nelle regione rurali dell’Etiopia. C’è chi va a scuola un giorno sì e uno no. Due fratelli si alternano: quando uno è a badare agli animali, l’altro va a scuola. Nella classe, oggi il maestro insegna le frazioni oggi. C’è una sola ragazza nella baracca-aula. Nessuno ha un quaderno o un libro. Ascoltano. Con dedizione. E silenzio.  


Local administrator

Il fratello dell’amministratore locale (mi traducono a questa maniera il ruolo dell’uomo che si è fermato a parlare con me) manda a prendere una maglietta verde. Vuole farsi fotografare nella spianata di fronte al paese. Deve mettersi elegante. Dove ho scritto il suo nome? Attorno, polvere, solo polvere. Bambini minuscoli fanno pascolare greggi di capre.






Una donna, al road-restaurant, ne offre un’altra, giovane, carina, bella, ai camionisti che passano. Johnny sorride e dice che lei è congio. Beautiful. Bella.





Strada per Assab. Camion su camion. Realtà immobile. C’è il paese dei venditori di carbone. In un altro vedono stuoie. Prima ancora c’erano i vestiti. Alla fine i lavatori dei camion.

I lavatori di camion
Solo Semera, nuova capitale della regione afar, è senza vocazione. E’ il luogo fasullo (e concreto) del potere politico su questa regione. Quando, molti anni fa sono passato di qua, non c’era nulla. Nemmeno si notava questa piana desolata. Non era un deserto. Era solo polvere. Non riusciva nemmeno a essere brutto. Era un non-luogo del nulla. Ci hanno fatto una città. Se una città è costruita un distributore di benzina, metterci palazzi ministeriali (già coperti da un velo di polvere), farci girare attorno capre e uomini e aprire un bar. Nel frigo succhi di frutti. Televisione su al-Jazeera. Ecco fatta una capitale.

Bilen-Semera, 15 febbraio










martedì 15 marzo 2011

Il mestiere di scout ad Awash


Ladi all'ingresso del parco di Awash

Ladi dice di avere fra i venti e i ventitre anni. Nessuno, qui, conosce l’anno della sua nascita. Ladi ha due scarificazioni simmetriche sulle guance. Segno tribale. E’ un kereyu, popolo oromo della regione di Awash. Sono pastori e guerrieri. Lui non voleva più stare dietro agli animali, non vedeva un futuro. Per questo ha deciso di lavorare come scout. C’è un parco, il parco di Awash, il più lungo fiume d’Etiopia, nelle terre dei kereyou. Dopo l’addestramento, lo hanno messo a vigilare proprio sulla sua terra. Questa è una regione di frontiera: qui i pastori afar e i kereyou si contendono i pascoli. Rivalità di secoli. Tutti gli uomini girano armati da queste parti. Awash è la zona di contatto. Gli scontri, a volte, sono feroci. Faide sempre uguali. I racconti sono sempre di sangue.

I pastori kereyu spingono i loro animali nelle savane proibite. Lo hanno sempre fatto. Continuano a farlo ogni giorno. Stanno uccidendo i grandi animali, gli orici (Awash è un parco povero, per anni e anni si è cacciato senza alcuna pietà): i kereyu e gli afar pensano che i turisti non verranno più se non possono passare il loro tempo a osservarli. Pensano che senza turisti il parco verrà chiuso e loro potranno pascolare le loro capre e le loro vacche. Pochi giorni fa hanno sparato sugli scout. Un ragazzo è morto. Un altro è rimasto ferito.

Ladi è visto come un traditore dalla sua gente. Dice che dovrà lasciare questo lavoro. Ha paura. Non vuole essere ucciso. Vuole tornare al villaggio. Ma non vuole fare il pastore. Non sa cosa fare, Ladi. Gli offro una Mirinda. Lui guadagna 750 birr al mese. Meno di quaranta euro al mese. Quando accompagna un gruppo, ha una paga di 70 birr in più al giorno. Meno di quattro euro. E ci sono cinquanta scout ad Awash. Se ti va bene se ti capita di avere un gruppo al mese. La Mirinda costa 12 birr, meno di un birr. Ladi impugna il suo ak-47 e si fa fotografare con rassegnazione.
Awash, 14 febbraio

lunedì 14 marzo 2011

Madame Kiki


Madame Kiki al buffet de Aouache


La strada verso il Sud devia verso oriente e, asse vitale dell'Etiopia, punta verso Gibuti. Quasi tutte le merci etiopiche viaggiano lungo questa strada. Seguono, come gli antichi ominidi, la fossa del Rift.

I cinesi costruiscono capannoni e zone industriali nella Rift Valley. Ci credete se vi dico che le rose dell'Europa arriva da questo vallone dell'Etiopia? Multinazionali indiane e olandesi possiedono le serre dei fiori. Questi sono giorni di san Valentino, un terzo delle rose che si vendono ogni anno vengono comprate in questi giorni. Provengono da queste serre africane. Ogni giorno tre aerei decollano dall’aeroporto di Bole, ad Addis Abeba, dirette verso i mercati olandesi. Le aste vengono fatte in volo. In meno di due giorni, un venditore srilankese cercherà di venderle a due persone sedute in piazza Navona.

Awash (Aouache per chi lavora allo Chemin de Fer fra Gibuti ed Addis Abeba) è il vertice del triangolo afar. Qui c'è la più sgangherata e bella stazione di questa ferrovia africana. 

Madame Kiki. Kiki Assimacopolous. 82 anni. E’ ancora al suo buffet. Il buffet di Aouache, stazione della ferrovia Gibuti-Addis Abeba. Il nome di madame Kiki non deve perdersi. Noi, esseri umani, passiamo, ma il nome significa e deve rimanere. Teme che le ferrovie vogliano portarle via il buffet e, allora, lei ne ha costruito un altro. Deve portare lo stesso nome. Lei è qui dal 1949 e le architetture di legno del suo buffet hanno 125 anni. Venne costruito dal nonno di madame Kiki.
Lei, con le sue rughe, la sua pelle mangiata dalle chiazze scure, dà gli ordini alle ragazze della cucina, raccoglie le ordinazioni, telefona in greco, rimbrotta in amharico, sussurra in arabo e con me parla in italiano. Le stringo la mano, scatto una fotografia e penso che questa è la storia. Lei, come i vecchi, prevede tempi durissimi. Ma, in realtà, progetta di ingrandire il suo buffet. E, felice di essere riconosciuta, viene ai tavoli e con occhi di vanità racconta dei suoi anni passati in questo luogo. Io guardo il pilastro in legno aggredito dalle terme e ascolto il canto degli uccelli che il suo giardino chiama a raccolta. Pensate: il suo nonno scappò dalla miseria di Samos per diventare operaio delle ferrovie francesi in Etiopia. Cosa sarebbe accaduto se fosse rimasto a Samos?
Awash, 13 febbraio

domenica 13 marzo 2011

Al bar Barsa e Che

Al bar Barsa e Che


Al bar Barsa e Che. Ad Addis Abeba. Quartiere di MeskalFlower. Barcellona e Che Guevara? Colori rossi e gialli delle sedie e immagini del Che sulla maglietta rossa dei camerieri. Confusione di Addis Abeba. Gioco di simboli in un minuscolo bar dove si beve buona birra e ci si prepara al sabato notte. Si arrostirà pecora sulle braci. Deve essere una catena di bar: ce ne sono altri dedicati al Che in questa capitale africana.

Addis uguale a sé stessa. Addis travolta dalle trasformazioni. E’ avvolta in una rete, la città. Lungo la Bole, strada regina fra le vie di accesso al centro, ponteggi di legno disegnano i grattacieli in costruzione. I muratori salgono fino al cielo senza protezioni, in bilico su bastoni malamente fissati. A ogni stagione delle piogge sono decine i ragazzi che cadono giù dalle impalcature. 
Accumulazione primaria. Gli esuli degli anni della tirannia rossa di Menghistu hanno fatto piccole fortune negli Stati Uniti. Ora sono tornati e tirano su grattacieli. E’ sparito il vecchio quartiere di Kazanchis, le case degli impiegati italiani al tempo della colonia. A colpi di maglio, si radono al suolo le baracche di Arat Kilo. Kazanchis, adesso, è un centro direzionale. E poi scopri che molti progetti sono della Cooperazione tedesca. C’è della follia in questa nuova Addis Abeba. Il piano regolatore appare incomprensibile. Ma c’è frenesia, ricchezza, lavoro. I tigrini hanno comprato la fedeltà di una piccolo borghesia amhara assicurando scenari di benessere.

Ma il salario di un impiegato è a 700 birr al mese. 30/40 euro al mese. Alcuni arrivano a mille birr, cinquanta euro. Una domestica analfabeta non guadagnerà più di 200 birr, ma avrà vitto, alloggio e schiavitù. Il birr continua a svalutarsi, tutto aumenta in città. La nuova borghesia è specchio di povertà urbane senza alcun futuro. La città, il Nuovo Fiore della regina Taytu, terra dove poveri e ricchi avevano imparato a convivere, si sta spezzando. E anche i ragazzi della piccola borghesia in cerca di arricchimento vedono la meraviglia dell’Occidente. Ha ancora miraggi l'Occidente, nonostante i soldi siano cinesi o indiani. Mai i ragazzi avranno i soldi per vivere come a New York. Senso di frustrazione. Si guarda ai palazzi di Mohammed Al Moudi, fra i settanta uomini più ricchi del mondo. Visibilità assicurata dalla proprietà dello Sheraton di Addis Abeba. Uomo dell’Arabia Saudita, musulmano, Al Moudi. Ma uomo etiopico. Padrone di quasi tutto. Miliardario fra i poveri. Pedina importante nello scacchiere degli equilibri etno-religiosi dell’Etiopia. E poi, altrettanto visibili, ci sono i cinesi, gli indiani, gli arabi. E la loro intraprendenza. La follia della modernità trascina Addis Abeba.

E io rimango a guardare i camerieri del Che e Barsa e penso al ragazzino cino-africano, figlio di una ragazza abbandonata sulla strada. Un tempo i meticci avevano pelle schiarita, oggi gli occhi a mandorla. I cinesi, mi dicono, non usano il preservativo.
All'ottavo piano di un albergo. Nella sala dell’albergo, festa del sabato sera. Il sonno sarà scosso dai balli pestati sul pavimento. All'altra ala di questo attico, un uomo corre su un tapis-roulant della palestra dai grandi vetri aperti sulla città Ad Addis, fioriscono le paleste, i body-culture center. Giù, fra le baracche, i bambini di strada escono nella notte. Sono 12mila dicono censimenti ottimisti. 
Al bar Barsa e Che si farà tardi e le birre verranno messe sotto il tavolo.
Addis Abeba, 12 febbraio 2011

sabato 12 marzo 2011

Give me school pen

Sulla strada di Axum 

 Il bambino zampetta deciso. Quattro anni? Forse cinque. Scampato alla mortalità infantile di questa terra. Ci sono buone probabilità di farcela. Impolverato, una maglietta lunga fino al ginocchio, piedi scalzi, testa rasata. La pelle bianca è una calamita e lui è scattato senza esitazione. Mano tesa. Parole a memoria: ‘Give me school pen’. Adocchia le mie due penne nel taschino. Scintillano. Conosce i ‘luoghi’ delle penne, il ragazzino.
‘Give me school pen’. Insiste senza stancarsi. Quasi una trance. Non accelero il mio passo. Camminiamo affiancati per dieci minuti buoni. A volte azzardo un ‘no’. In genere sto zitto, lo guardo come stupito, scuoto la testa e tengo gli occhi bassi o verso il cielo. Ritualità. Né io, uomo bianco, né lui, bambino nero, ci stanchiamo. Siamo abituati. ‘Give me school pen’. Quanto ci metterò ad attraversare questa immenso spiazza di polvere che si slarga davanti al parco delle stele di Axum? Il ragazzino sembra deciso a non mollarmi. Il guardiano all’entrata del parco sarà la mia salvezza. Devo salvarmi?

I bambini hanno appreso, per dna, per tradizione, per abitudine, che gli uomini bianchi danno le penne. Un tempo, anche qui in Etiopia, correvano gridando fin da lontano: ‘Bic, bic, bic’. Da qualche anno le Bic devono essere scomparse, almeno nell’Africa non francofona. E allora i bambini imparano altre lingue. Non sanno perché i bianchi danno le penne, ma sanno che le regalano più volentieri di altri oggetti. E allora si chiede quel che si può ottenere. Soddisfa il buon cuore dei bianchi. Pensiamo di essere utili a qualcosa. Noi che cacceremo ogni immigrato dal nostro pianerottolo, in Africa diventiamo generosi. 
Non serve per la scuola, la penna. E’ un trofeo. Si può scambiare con altri oggetti. Forse si può perfino vendere. Si può esibire come una conquista. Come uno scalpo. Ho visto un bambino, ottenuta la sua preda senza troppa fatica, girarsi con un sorriso di trionfo verso i suoi amici. Subito dopo, si sono azzuffati senza pietà. Chi ha insegnato una frase complessa come 'give me school pen'? Un maestro furbetto? Un genitore esperto? Un fratello più grande?

Ho visto bianchi israeliani grandi e grossi girare con pacchi di penne: le donavano una per una per una a vecchi seduti davanti ai loro cammelli. I guerrieri israeliani, così feroci nelle loro terre, sorridevano come crocerossine. E il vecchio tigrino, stanco del suo viaggio, si chiedeva, senza chiedersi, le ragioni di quel dono. Solo perché loro erano neri? E i bianchi donano penne? I vecchi non scrivono, non hanno bisogno di penne. Ma i bianchi sono certi che servano per la scuola. E cosa c’è di più ‘giusto’ di una scuola in Africa?
L’Africa deve essere piena di penne lasciate dai bianchi.

Spesso le richieste si diversificano: in Etiopia, qualcuno, goloso, chiede caramella (mi ricordo un afar dalla faccia spigolosa sussurrarlo mentre la saliva del piacere gli usciva dalla bocca). In Malawi si prega, con sguardo implorante, che sia concesso uno sweety. In Mali, si azzarda: bonbon. Un sapore negato ai palati dei bambini africani. La dolcezza del dolce. Ad Asso-Bole, paese solitario alla fine del canyon del fiume Saba, cediamo anche noi: allunghiamo una manciata di caramelle a Mussa, del resto la sua mamma ci ha offerto il thè. E' una ricompensa. Il bambino, sta appena in piedi, allunga la mano e le afferra tutte. Non riesce a scartarle. 

Ad Alitena, ai confini fra Etiopia ed Eritrea, rimango io imbambolato, la bambina mi ha spiazzato. Chiede sillabando le parole: cioccolata. Penso: cavolo, questa è un genio. Questa avrebbe possibilità su possibilità se solo fosse nata in luogo meno sfigato. Questa è terra di cattolici, stai a vedere che i preti distribuiscono cioccolata. E lei, una volta, ha assaporato un gusto delizioso che non si può dimenticare. La parola che dice di questo dono degli dei deve esserle rimasta impressa nella testa, negli occhi, nel palato, nel cuore. 

In Etiopia, i bambini imparano, fin dai giorni della culla che non hanno, la parola money. Ben prima di mamma. Se va male con la penna, si tenta l’impresa impossibile: money, money.
Axum, 6 marzo 

venerdì 11 marzo 2011

La terra dell'Africa

Qualcuno, in un ufficio protetto dai gas di scarico delle auto di Addis Abeba, avrà una mappa della nuova geografia della modernità agro-industriale dell’Etiopia? Chi conosce quanta terra è passata di mano in questi ultimi anni? Immensi movimenti di popolazioni, migliaia e migliaia di ettari diventati territorio di compagnie indiane, cinesi, canadesi, saudite.
Non c’è società civile, non ci sono forze locali. Caro Latouche, dimenticati la società vernacolare. A pelle di leopardo il grande business (da cui l’Occidente appare escluso) costruisce una nuova carta geografica e fa migrare le popolazioni con un’efficacia che era sconosciuta alla ferocia della tirannia di Menghistu, padrone rosso dell’Etiopia trent’anni fa.
Dodicimila operai nei nuovi condomini di Asayita, terra afar, ai confini di Gibuti. Migliaia di braccianti amhara e tigrini a raccogliere canna da zucchero. Etanolo, nuova energia. Altri saranno lungo le sponde dei nuovi laghi che sommergeranno territori dell’Omo. E poi il sesamo a Humera. Avete presente Humera? Vertice di un rettangolo fra Sudan, Etiopia ed Eritrea. Ci sono stato tanti anni fa ed era una terra desolata. Oggi, quante migliaia e migliaia di persone sono arrivate a Humera dal Wollo? A morire di malaria. Dormono nei campi del sesamo. E poi ci sono i militari. E i campi delle prostitute. Ancora: cammelli destinati allo Yemen. Allevati dagli afar in terre oromo. Migliaia e migliaia di cammelli destinati a varcare il mar Rosso. E poi i trecentomila ettari comprati e affittati dagli indiani nelle paludi di Gambela. Zanzare e malarie per chi raccoglierà cereali, riso e thè. Fiori nella Rift Valley. Gente venuta dall’Olanda, ma soprattutto da Bengalore. Con i loro veleni e la nostra festa di san Valentino. Panorama di serre lungo i valloni che, milioni di anni fa, videro camminare gli ominidi. Che altro? Il potassio dei canadesi e degli indiani nella fossa della Dancalia più dura. Quasi mille persone (e le trivellazioni non sono ancora cominciate) scese dal Tigray e dall’Amahara in una fornace da demolire per fertilizzare i suoli delle agricolture intensive. E cosa dicono i canadesi? Che non c’è niente che abbia valore ambientale in quel deserto.
Qualcuno ha una mappa dei Grandi Progetti in Etiopia? Qualcuno sa immaginare il futuro di questa Africa?
Addis Abeba, 9 marzo

Ancora un ritorno

La donna somala è avvolta nella sua veste marrone. Il profilo di un vecchio volto. Il naso quasi invisibile, le grandi labbra. La donna è immensa. Quando si alza, è una eclissi di luce. La borse stretta sul grembo, la mole del suo corpo nasconde la cintura di sicurezza. Anello d’oro al dito. Mangia le noccioline a forma di aeroplano. Immobile. Non può tenere in equilibrio il tavolinetto dell’aereo. Il bicchiere della Mirinda cade. Non mangerà altro per tutto il volo, nonostante l’hostess rassicuri: ‘Halal, halal’. Andrà a Londra, immagino, la donna. Le nocche delle dita e la loro punta sono colorate da un hennè scuro come il sangue. La figlia avrà chiamato la madre nella capitale inglese? Il sedile dell’aereo la imprigiona, ma lei è abituata agli spazi ristretti nei camioncini del sua savana. Ora è la modernità.
Sto tornando in Italia. Dove sarà quasi primavera. Il rovo dai fiori bianchi, davanti a casa, almeno si farà illusioni. E, al solito, nostalgie, malinconie, senso di desolazione si confondono con emozioni leggere, punte di felicità, bluff di serenità. Mi manca ciò che non può mancare. E’ l’aereo che fa la sua rotta. Un ritorno che cerca un senso e non lo troverà. Dovrei diventare immobile come la donna somala. Ma io non ho sangue africano nelle vene. Dovrò scrivere di questo mese. Dovrò trovare le fila di quanto sta accadendo in Libia, un’altra mia terra.  
Il blog, il web log, si è fermato in queste settimane. Per assenza di tecnologie nei deserti delle Dancalie. Una fortuna o una prigionia l’impossibilità della rete di raggiungere i vuoti della contemporaneità? Già, risposta non c’è. Come non c’era quando Bob Dylan lasciava volare le sue parole. Adesso proverò a ripercorrere questo mese africano. Non so se vi riuscirò.
La donna somala ha preso un aereo. Posto ventotto C, lato corridoio. Siamo a noi a essere imprigionati, credo.
Volo Addis Abeba-Roma, 10 marzo