mercoledì 23 marzo 2011

La finzione della Libia

La Libia che io amo


Al mondo occidentale piacciono le finzioni. Piace parlare di democrazia. Il mondo africano e il mondo arabo, a loro modo, si adattano. E creano la scenografia che l’Occidente vuole. Con cinesi e indiani si va più per le spicce, con loro le ipocrisie sono bandite e si parla di affari senza camuffarsi dietro parole vuote.

Gheddafi e la sua Libia sono una storia esemplare. Gheddafi è un genio dell’arte da palcoscenico. Un maestro del teatro del grottesco. Ha costruito un sistema falso e perfetto. Perché Berlusconi (non solo lui: tutti i leader occidentali e mondiali. Tutti, soprattutto gli italiani: da Andreotti a Craxi, da Prodi a D’Alema) si sono inchinati di fronte al rais beduino e hanno fatto umilianti attese di fronte alla sua tenda (solo Gianfranco Fini, per la verità, si è spazientito e, stufo di aspettare, se ne andò sbattendo fogli sul tavolo). Chissà perché tutte queste genuflessioni non dovute? In fondo Gheddafi non ha nessuna carica in Libia. Cittadino fra i cittadini. Certo, lui è solo il qaid, il Capo. Ma, ufficialmente, non ha mai rappresentato il paese. Alzi la mano chi sapeva dire senza incertezze il nome del primo ministro libico? Ma un primo ministro ci vuole, comprimario della finzione. La Libia, negli ultimi quarantadue anni, è stata Gheddafi. E la sua famiglia allargata (molto allargata). Alcuni futile esempi: a Tripoli, in una notte, scomparvero le cunette rallenta-traffico: corse voce che non piacevano a uno dei figli di Gheddafi. L’ora legale è perenne in Libia: pare per volere di Gheddafi. Tre anni fa vennero chiuse tutte le sedi diplomatiche libiche in Italia: non dovevano fornire assistenza al figlio Saadi, in fuga d’amore sulla riviera ligure. Il rais ha sempre avuto il tempo per le minuzie. Non solo per le minuzie: le feste islamiche, in Libia, hanno calendari diversi. A dettare l’ostilità che divide il rais dai regnanti sauditi, custodi dell’ortodossia musulmana.

Prendete il dilemma che deve inquietare (chissà? Magari non dormono sonni tranquilli lo stesso) i vertici di Unicredit, la più importante banca italiana ed europea. E’ ben noto: il vicepresidente è libico. Si chiama Farhat Omar Bengdara. Era il governatore della Bank of Libia. Gheddafi, irritato dal suo silenzio pavido, lo ha dimesso e lui, ultima traccia che io conosca, se ne sta a Istambul. In realtà fa la spola fra la Turchia, la Germania e i paesi del Golfo. Dove ha mandato la famiglia. Notazione: Bengdara è nato a Bengasi. Ha 46 anni. La Libia, anche questo è ben più che pubblico, possiede più del 7% di Unicredit. Con due soggetti: la Bank of Libia e il Fondo Sovrano. Due soggetti diversi? Certamente, dal punto di vista legale. Ma le sue casseforti (con buona pace dell’ex-amico Tarek ben Ammar, autorevole finanziere tunisino) sono nelle mani di Gheddafi e del suo clan. Ma il mondo non vuole un clan tribale, vuole l’artefatto di una banca centrale e di un fondo sovrano. Gheddafi, allora, lo costruisce, tanto le chiavi le possiede lui. E se Bengdara si dimettesse (già, per statuto della banca non può certo essere dimesso da Ghedafi), cosa accadrebbe? Il numero due di Unicredit verrebbe ancora nominato da Gheddafi? Tranquilli, Bengdara non si dimetterà e Unicredit ha già fatto sapere che il consiglio di amministrazione funziona benissimo anche senza di lui. Sono contento: Unicredit, confesso, è anche la mia banca. E, ultima notizia, a Berlino già suggeriscono il nome di Bengdara come possibile uomo della transizione post-gheddaffiana. Si vende la pelle dell’orso prima di averlo catturato. Ma c’è della abilità in questa voce. Bengdara, dalle sue parole, appare perfetto. Come Ponzio Pilato.

Bell’imbroglio legalitario per l’Occidente che ama moltissimo le ipocrisie. Tranne pentirsene: cenere sul capo per Howard Davies che si è dimesso da direttore della London School of Economics (che ha ricevuto milioni di sterline da Saif al-Islam, figlio di Gheddafi. Adesso è stata avviata un’indagine perfino sulla tesi di dottorato di Saif). Davies si è dimesso, of course, anche da consigliere del Fondo Sovrano libico di cui faceva parte (perfido, Davies: ha scritto che il governo inglese era d’accordo con questa sua scelta). Si è dimesso dal fondo sovrano libico anche Marco Tronchetti Provera che, a differenza del suo collega inglese, non ha rinunciato all’ipocrisia: lui, fa dire, si è sentito colpito dalle disgrazie del popolo libico. Chissà a cosa pensava quando ha accettato la carica? Per inciso: il padre di Afef, moglie di Tronchetti Provera, è stato un potente diplomatico, uomo-chiave nei rapporti fra Tunisia e Libia. E si racconta che il fratello di Afef sia stato compagno di università, a Vienna, di Saif. Già, non stavamo parlando di clan?

Gheddafi è un genio: ha creato la finzione perfetta, un involucro, caro alle forme dell’Occidente, per nascondere gli equilibri del suo potere tribale. Dove siamo stati tutti, in questi anni? Abbiamo fatto finta che la Libia fosse un paese con un governo, istituzioni, banche centrali, società, comitati popolari e oggi veniamo svegliati bruscamente e solo oggi gli accademici, silenziosi o quasi in tutto questo tempo (non è vero, ma i loro pensieri sono stati clandestini), ci dicono che mai le trentadue (o trentasei? O 140, tenuto conto dei sottoclan?) tribù e clan hanno lasciato il loro potere.
Roma, 23 febbraio
  

Nessun commento:

Posta un commento