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La vecchia Tripoli |
Da giorni partecipo a incontri sulla Libia. Troppi. A Milano, a Firenze, a Venezia, a Verona. Incontri affollati, domande naturali: ‘Perché? Perché nessuno ha previsto? Come finirà?’. Quasi un’ossessione. Per me. Mi sto accorgendo come questa guerra abbia scavato dentro di me. Tempo di fermarsi.
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L'hotel Corinthia a Tripoli |
La guerra è scomparsa dalle prime pagine dei giornali. Diventata
routine. Impasse. Gli uomini in armi si fronteggiano nelle città dei terminali petroliferi. Conosco quel territorio. So del suo deserto, della sua desolazione. Si combatte nella desolazione. Misurata, a sentire le cronache, deve essere un deserto di macerie. Le televisioni non ci fanno capire. Via vai di camionette con mitragliatrici montate sopra. Immagini vere e fasulle, allo stesso tempo. Al Sud, in deserto, si osserva con distacco a quando accade sulla sponda del Mediterraneo. Si cerca un lavoro qualsiasi. Magari in Algeria. A Est di Bengasi un amico, al telefono, dice: ‘Venite, non ci sono problemi’. Conosco i libici. Nessuno, in realtà, ci racconta cosa sta accadendo sul serio in Libia.
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I mercati di Tripoli |
I profughi eritrei ed etiopici, quelli che per mesi abbiamo, con cattiveria, respinto dalle nostre coste (nessuno che chieda semplicemente scusa), hanno lasciato il compound della chiesa cattolica di San Francesco, nel quartiere di Dhara a Tripoli. Erano oltre duemila. Giovanni Martinelli, vescovo della città, uomo di tutti i dialoghi, è rimasto solo. Con sei confratelli e collaboratori. Ostinati nel testimoniare la sua fede nel futuro. Che altro può fare un prete? Gli eritrei che si erano rifugiati fra le mura della chiesa, alla fine, hanno trovato un barcone per attraversare il mare. Molti sono morti. Di loro non avremo memoria. Settanta, dice il vescovo, sono stati sepolti ieri nel cimitero cristiano di Tripoli. Conosco quel cimitero. Ne conosco la storia e so che storia può raccontare. So cosa significa per un altro vecchio italiano rimasto in quella città. Immagino il suo dolore. Tutte le organizzazioni internazionali hanno abbandonato Tripoli. Se ne vanno sempre. Martinelli è rimasto.
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Il gasdotto dell'Eni |
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Il cimitero di Hamangi a Tripoli |
Da due giorni non cadono bombe su Tripoli. Martinelli, uomo solitamente riservato, si è molto esposto in questi giorni. Ha denunciato vittime civili. Ha invocato mediazioni africane. A metà degli anni ’90 fu lui, lavorando con tenacia, ad avviare il cammino di riconciliazione della Libia con il mondo. Fu il Vaticano, nel 1997, il primo paese ‘occidentale’ a riallacciare relazioni diplomatiche con la Libia. Anche oggi, il vescovo crede che la diplomazia possa più della guerra. Ora o mai più, forse. Gli eserciti sono fermi nel loro affanno guerriero. Il massacro di Bengasi è stato evitato. Bisogna evitare quelli futuri. Cos’altro c’è da bombardare in Libia dopo centinaia di raid aerei? Ho letto che accadde lo stesso in Serbia: i comandi militari non sapevano più cosa bombardare. Certo, Gheddafi mai se ne andrà da Tripoli. Ma è davvero il simulacro di un potere. Deve vivere un momento di folle esaltazione.
Assaray al-Hamra, Il Castello Rosso di Tripoli, sulla piazza Verde, è un luogo shakesperiano: ben pochi dei pashà o dei dey turchi che abbiano governato la Tripolitania è morto di vecchiaia in un letto. Oggi vi si sta consumando un’ultima tragedia. Quel castello è il simbolo della precarietà del potere. Per quanto feroce possa essere.
Ho due ricordi di Giovanni Martinelli. La prima volta che lo incontrai volle mostrarmi la sua chiesa. Vi è un grande affresco nella navata di destra. Raffigura l’incontro di San Francesco con il sultano al-Malik al Kamil. Avvenne nel 1219, era in corso la quinta crociata. Gesto straordinario di pace. Gesto compiuto contro tutti gli uomini di quella guerra insensata. Fra Francesco e al-Malik nacque un’amicizia destinata a durare tutta la loro vita. Poi Martinelli prese l’auto e mi accompagnò sul lungomare di Tripoli. Era il tramonto. Il vescovo fece un gesto verso l’orizzonte, il profilo della città vecchia risplendeva sul mare: ‘Come è bella, questa città….’.
Padova, 5 aprile
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