lunedì 4 aprile 2011

Il vento e la polvere. Attraversare la piana di Dodom

In cammino nella Piana di Dodom

 Scendiamo dal vulcano. Ci incamminiamo all’alba. Una lunga giornata davanti. Tre ore di cammino a ritroso. Adios, Erta Ale. Ritorno al campo base, il pagamento degli scout è operazione lenta e complessa. Passano di mano centinaia e centinaia di birr. Gli autisti hanno fretta. Sanno cosa li aspetta. Non amano la piana di Dodom.

Gli esploratori novecenteschi (Ludovico Nesbitt, il barone Franchetti, ma anche il vulcanologo francese Hazieff) hanno brutti ricordi della piana di Dodom. Nei loro diari parlano solo di fatica, del ‘rischio della lussuria’, della sete che non può essere placata, dei pozzi insabbiati. Si va avanti a capo chino in questa piana. Questa è la stagione del vento e il khamsin ha trovato un campo giochi perfetto nella conca della Dancalia. Solleva e spinge a velocità da follia nuvole e nuvole di polvere. Fango secco e ceneri diventano un tornado. La piana di Dodom sono i chilometri più lunghi e penosi di tutto il viaggio.
Nebbia

Ci sono ombre in questo inferno di polvere. Ci sono villaggi. Ci vivono uomini e donne, qui. Sono ostinati, rassegnati. Non hanno scelta. Un ragazzino dai movimenti andicappati, insensibile al vento, siede su un letto di pelle di capra. Alza la testa verso il cielo, mostra denti aguzzi come farebbe un leone imprigionato da mille catene. Ha movimenti snodati. Rimango a guardarlo con occhi spaventati. Una donna afferra il ragazzo e cerca di trascinarlo verso la capanna. Una tavoletta islamica, incisa di segni arabi, è abbandonata per terra. Come se la scuola coranica si fosse interrotta all’improvviso per la tempesta. Uomini, donne, bambini sono fantasmi polverosi che appaiono e scompaiono a seconda dei turbini del vento. Stanno lì. In piedi, accanto ai recinti delle vacche. Non ne vedo i volti. Sono davvero solo profili scolpiti dalle rotazioni del khamsin. Non si difendono più dal vento. Gli scialli di tela indonesiana non proteggono. Guardano senza paura l’alzarsi di decine di trombe d’aria. Le ciglia e i capelli sono sabbia. Gli occhi sono striati da vene di sangue. Penso alla fortuna di essere nati altrove. Qualche ragazzino agita un bastone per tenere sotto controllo mandrie di vacche che sbandano di continuo. Donne invisibili vanno verso pozze che da qualche parte devono pur essere. I villaggi sorgono là dove c’è acqua. Almeno una speranza di acqua. Niente ha colore, in questo momento. E’ solo sporco. Un polveroso bianco-sporco.

Le vacche della Piana
I paesi della piana sono spettrali. Hanno i nomi del luogo dove sono stati costruiti. Berità è ‘Il recinto delle vacche’. I bambini, appena visibili, azzardano un saluto con un agitare di mano. Non esiste una vera pista. Perdiamo e ritroviamo tracce di altre macchine. Andiamo avanti a zig-zag. Ci infiliamo in una prateria di monticelli erbosi. ‘Cornee paglie, ramoscelli stentati, venti infami’, scriveva Nesbitt. Ci sentiamo come la pallina di un flipper. Aiythroah è ‘Il vecchio posto’. Meno 83 metri sotto il livello del mare. Desolazione assoluta. Nuvola di cavallette. Carcasse di vacche morte di stenti sono disseminate per la piana di fango secco. Sono animali crollati al suolo all’improvviso, senza emettere un solo suono, morti in un istante roteando gli occhi. Gli animali brucano l’impossibile in questa piana. Ecco Argalè, corso di un wadi essiccato e qualche capanna: ‘Il luogo che fa rumore’. Namagubbi, ‘Le due pianure’. Almeno qui c’è una vegetazione incartapecorita. 
Miracolo: la nebbia di polvere si solleva in un lampo. Appare una striscia di pascolo, una pallida prateria, poi il fronte della lava, paesaggio a strisce, linea verde, linea nera. 


L’orizzonte è chiuso dai vulcani. Cambio improvviso di specchio a Dodom, un altro mondo: centinaia di vacche pascolano senza frenesie, ragazzi afar sollevano la testa verso di noi. Cosa è successo? Lo spettacolo è mutato di colpo. Come se davvero avessimo varcato lo specchio 
La raccolta della duma a Waideddu
di Alice. Dancalia che ricerca i colori perduti. E’ come se acque invisibili si raccogliessero contro l’argine insuperabile della lava: sono loro a regalare linfa e vita a sorprendenti praterie. Le macchine fanno lo slalom in una boscaglia di sterpi. Appare perfino uno strano corso d’acqua. Torrente carsici che riappare con la sua immobilità. Due vacche vi camminano dentro con calma. Ecco le palme di Waideddu, ‘il luogo delle gazzelle’. Quasi venti anni fa questo fu il luogo di prigionia di un gruppo di italiani sequestrati da un movimento ribelle afar. Oggi vi si estrae la duma, bevanda alcolica, figlia della fermentazione della linfa delle palme. Poi ci sono le sabbie morte della foce del grande wadi Saba: passaggio difficile per le macchine. Solo quando si raggiunge l’altra sponda, la pietraia che condurrà fino al villaggio di Ahmed Ela, gli autisti tirano il fiato. ‘Finito’, dicono. Il paese dei cavatori del sale è un profilo desolato davanti a noi.

Ahmed Ela, 20 febbraio


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