venerdì 6 settembre 2013

Pisa-Perpignan, una storia senza immagini


Trentasei euro per scavalcare il Mediterraneo occidentale. La mano invisibile del mercato, guidata dagli algoritmi, mi è incomprensibile. Ma ne accettiamo, senza sensi di colpa, la complicità: vogliamo pagare poco per viaggiare. Così è più caro il treno che non l’aereo, spenderò più di bus che non per volare per raggiungere Perpignan. Non ci sfiora l’idea delle contraddizioni: come è la storia dell’impronta ecologica? In quale giorno abbiamo già sfruttato l’ultima risorsa della Terra?

Low-cost sta anche per poca gentilezza. Nello spazio fra aeroporto ed aereo sono banditi i sorrisi, i metodi calmi, l’indulgenza. Hanno fatto addestramento da marines le ragazze di Ryan Air. Oppure sono arrabbiate per questo lavoro. Hanno un solo compito: fare in fretta e vendere. Perché insisto a prendermela: ho scelto con determinazione di volare a basso costo. Ho quello che merito.

Batticuore nella coda dei passeggeri: misurano e pesano le valige? Ci si sporge per vedere. Ognuno di noi ha il suo peccato. Io giro con giacchetto dalle mille tasche e giubbotto da inverno nonostante i quasi trenta gradi. Si aggirano le regole. Non si contestano le regole.

La sola voce felice è quella di chi ti annuncia, in maniera registrata, una fantastica colazione: lattina di orange passion fruit, panino implasticato, succo Jaffo (boycott Israel), bursting with fruit juice e amazing cappuccino accompagnato da springles. In più un gratta e vinci. Perché sono seduto qui a fare finta di leggere John Berger mentre sono affascinato da quanto va in scena nel corridoio dell’aereo?

Vado al festival di fotografia di Perpignan, il più importante incontro di fotogiornalismo al mondo. Andiamo a vedere i drammi che sono accaduti su questo pianeta. Festival di fotografia: e quindi lascio a casa la macchina fotografica. Racconto senza immagini.

L’aereo atterra e parte una marcia trionfale. Contagia la platea dei viaggiatori che applaudono. Abbiamo perfino venti minuti di anticipo. ‘The best company….’. Credo di essere in un film di Virzì. E io sono nel film. Per mia volontà. Finalmente l’hostess mi dona un sorriso mentre scendo. I miei compagni di viaggio parlano dei luoghi di Barcellona da evitare: raccontano, con mezzi sorrisi, di scippi e aggressioni.

Bus, Catalogna, cartelli in tre lingue. L’aereo si è disperso per la Costa Brava e Barcellona. Siamo in tre per Perpignan.

La mia casa è vicino alla stazione. Casa di uno psichiatra. Almeno a leggere la targhetta fuori dalla porta. Viene giù a pezzi. Crolla la porta della doccia. Non ci sono lenzuola. Rue Charles de Gaulle, dalla stazione verso il centro. In cento metri, sette kebab….mangio falafel e bevo Coca-Cola. McDonald deve aver perso la sua battaglia della globalizzazione. Il kebab è il cibo più diffuso in Occidente. Mangio le stesse polpettine che divoravo ogni sera in via delle Beccherie a Matera. Matera e Perpignan, provincia del MedioOriente gastronomico. Carne che arriva dalla Germania dopo essere passata per la Nuova Zelanda o l’Argentina. C’è della potenza spaventosa in questo andirivieni del cibo sopra gli oceani. I kebabbari sono arabi. Gentili, quasi premurosi. Gli istruttori delle hostess non sono passati di qui. Pareti nude del loro negozio. Sedie di plastica.

Perpignan

Cammino per le strade di Perpignan. Arabi e fotografi. Una piccola geografia di punk a bestia agli angoli del centro. Piccole strade, labirinto di viuzze. Ancora kebab. Un vecchio in jallabia seduto e perso di fronte al negozio del figlio. Mi perdo, mi ritrovo, giro a caso. Non chiedo. Mi ostino a cercare di orientarmi. Scappo. Spero di imbattermi in qualche mostra. Non ho voglia di andare ad accreditarmi. Vogliono sessante euro. Cammino fino alla stanchezza. La mostra di Sebastiano Tomada. Le foto di Aleppo. Il dramma di Aleppo. Sì, servono le foto. Eccome se servono. Fanno vedere i corpi, il disastro del viso, il sangue, le ferite, l’urlo. Il sangue sulle jallabia bianche. Sebastiano e il suo stampatore donano tonalità pallide alle foto. Penso alla guerra in bianco e nero di Mc Cullin. Sebastiano sa essere lì, in mezzo ai feriti e ai morti, e ci si rende conto che sta ‘partecipando’. Non è un estraneo, non è un osservatore. E’ parte di quella guerra. Lo vedrò poche ore dopo: ha l’aria smarrita, sorride timidamente.

Nelle foto, vi è sempre il nome dello stampatore.

La mia attenzione sul guanto bianco (foto di Sebastiano Tomado)


Mi colpisce una foto di capre che brucano fra le macerie del quartiere di Machhad ad Aleppo.
Osservo un guanto di plastica accanto al viso disperato di un uomo ferito. I suoi occhi. Il sangue sulla jallabia. Mi fisso sul pacchetto di Gauloise che spunta dal taschino della camicia di un uomo ferito che viene trasportato in maniera scomposta lontano dalle bombe.

Il pacchetto di Gauloise

Ci sono sempre autobus carbonizzati in queste foto. E uomini armati che camminano con superbia in mezzo a strada in rovina. La ‘felicità della guerra’, ha scritto Hillman. E il generale Patton guardando la collina dei morti sussurra: ‘Quanto mi piace tutto questo’. Almeno fino a quando non ti fai male.

La mostra di Darcy Padilla

 Mi immobilizza la tenacia di Darcy Padilla. Per diciotto anni ha fotografato la vita, la morte di Julie (http://www.darcypadilla.com/thejulieproject/intro.html). E dopo, quella di sua figlia e del suo compagno. Una storia di Aids, ferite, figli e figlie, Jack, Jason, violenza, solitudine, infinita compassione, anche bellezza, disperazione. Anche Darcy, come Sebastiano, ha partecipato. Per quasi venti anni, è stata lo specchio di una cronaca che non conosce un buon fine. Sto lì, seduto nella grande cappella che ospita la fila delle foto. Sto lì e non ho niente da dire. Mi siedo su un gradino di quello che era l’altare. Guardo e riguardo le foto. Il compagno di Julie, Jason, è vissuto, da bambino, in ventuno centri di accoglienza infantile. Julie, se ho ben capito, ha avuto sei figli. L’ultima Elyssa grida ‘ti detesto’ al padre Jason. La sorella adottiva di Jason alla fine si prende cura della bambina, abbraccia il fratellastro e sussurra: ‘Tutti si aggiusterà’. Già, tutto andrà bene.

La chiesa dei Domenicani e la mostra di McCullin

Sono troppe le foto di Mc Cullin. Sono nella chiesa dei domenicani. Ci passo davanti senza fermarmi. Sosto soltanto davanti ai miliziani cristiani a Beiruth, foto scattata negli anni della guerra civile. Uno di loro sta suonando la mandola araba. Mi sembra che una donna accenni il passo di un ballo. Il suo compagno ha un Ak-47 in mano. Hanno appena sparato, forse. Ai palestinesi. Erano i giorni di Sabra e Chatila.

Sui muri di Campo Santo


Su un muro di Campo Santo, lucciole di carta giocano con una scimmia che passeggia tranquilla a quattro zampe. Prendo fiato. Altre persone si mettono a guardare con me questo strano collage.


Il cerchio del silenzio

In una piazza incontro una decina di persone, tutte anziane (la mia età), che stanno in cerchio in silenzio. Al centro una lanterna. Saprò che ogni primo giovedì del mese vengono qui. E compongono questo cerchio. Vogliono ricordare gli immigrati e le ingiustizie commesse contro di loro. Due giovani fotografi si uniscono al cerchio.

Cercando di capire la geografia del festival

Poliziotti-rambo controllano gli accessi alla proiezioni serali. Uomini dello staff, con fisici da culturisti, respingono chi non ha badge. Almeno a questo ingresso. Uno di loro mi vede spaesato e mi regala il biglietto: ‘Domani se lo procuri’.

Visa pour l'image (ci ho messo un po' a capire Visa, è la mia prima volta)


Le foto raccontano dell’anno appena passato. Dalla morte di Chavez alle fabbriche incenerite del Bangladesh, dalla miseria di Cipro alla guerra civile in Messico fra bande di narco: è accaduto qualcosa di bello in questo anno? Cerco una buona notizia. Premiano Mc Cullin. Ha occhi chiari e una bella faccia. Dice: ‘Sono imbarazzato a mostrare davanti a voi il dolore delle persone he ho fotografato’.

Sul palco. Non ricordo il nome dei due fotografi

Alla fine, saliamo, invitati, tutti sul palco. Centinaia e centinaia di persone. Per ricordare due fotografi francesi prigionieri in Siria. Un momento di silenzio. Non so cosa voglia dire non dimenticate: ma non dimenticate i due francesi e nemmeno Dominico Quirino e padre Paolo Dall’Oglio. Anche loro inghiottiti dalla ferocia che si è scatenata in Siria. Soprattutto non dimenticate i siriani.

A mezzanotte è ancora il kebab. Cos’altro possono mangiare? Questa volta ci sono due ragazzi. Oggi è giorno di falafel. Mi sento pesante.


E in tasca ho la mia Lumix. Ho barato un po’.

2 commenti:

  1. Davvero bei racconti quelli di Semplici, che scopro grazie alla passione comune per la paesologia. Insomma, dalla qualità fuorisce spesso altra grande qualità. Grazie Andrea.

    Sandro Abruzzese

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  2. Grazie a te, Sandro.....faccio qualche fatica a riconoscermi.....ma sono felice delle tue parole..in realtà scrivo in fretta, senza pensarci, ci vorrebbe 'cura'...un abbraccio

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