Trentasei euro per scavalcare il Mediterraneo occidentale.
La mano invisibile del mercato, guidata dagli algoritmi, mi è incomprensibile.
Ma ne accettiamo, senza sensi di colpa, la complicità: vogliamo pagare poco per
viaggiare. Così è più caro il treno che non l’aereo, spenderò più di bus che
non per volare per raggiungere Perpignan. Non ci sfiora l’idea delle
contraddizioni: come è la storia dell’impronta ecologica? In quale giorno
abbiamo già sfruttato l’ultima risorsa della Terra?
Low-cost sta anche per poca gentilezza. Nello spazio fra
aeroporto ed aereo sono banditi i sorrisi, i metodi calmi, l’indulgenza. Hanno
fatto addestramento da marines le ragazze di Ryan Air. Oppure sono arrabbiate
per questo lavoro. Hanno un solo compito: fare in fretta e vendere. Perché
insisto a prendermela: ho scelto con determinazione di volare a basso costo. Ho
quello che merito.
Batticuore nella coda dei passeggeri: misurano e pesano le
valige? Ci si sporge per vedere. Ognuno di noi ha il suo peccato. Io giro con
giacchetto dalle mille tasche e giubbotto da inverno nonostante i quasi trenta
gradi. Si aggirano le regole. Non si contestano le regole.
La sola voce felice è quella di chi ti annuncia, in maniera
registrata, una fantastica colazione:
lattina di orange passion fruit, panino implasticato, succo Jaffo (boycott Israel), bursting with fruit
juice e amazing cappuccino accompagnato da springles. In più un gratta e vinci.
Perché sono seduto qui a fare finta di leggere John Berger mentre sono
affascinato da quanto va in scena nel corridoio dell’aereo?
Vado al festival di fotografia di Perpignan, il più
importante incontro di fotogiornalismo al mondo. Andiamo a vedere i drammi che
sono accaduti su questo pianeta. Festival di fotografia: e quindi lascio a casa
la macchina fotografica. Racconto senza immagini.
L’aereo atterra e parte una marcia trionfale. Contagia la
platea dei viaggiatori che applaudono. Abbiamo perfino venti minuti di
anticipo. ‘The best company….’. Credo di essere in un film di Virzì. E io sono
nel film. Per mia volontà. Finalmente l’hostess mi dona un sorriso mentre
scendo. I miei compagni di viaggio parlano dei luoghi di Barcellona da evitare:
raccontano, con mezzi sorrisi, di scippi e aggressioni.
Bus, Catalogna, cartelli in tre lingue. L’aereo si è
disperso per la Costa Brava e Barcellona. Siamo in tre per Perpignan.
La mia casa è vicino alla stazione. Casa di uno psichiatra. Almeno a leggere la targhetta fuori dalla porta. Viene giù a pezzi. Crolla la porta della doccia. Non ci sono lenzuola. Rue Charles de Gaulle, dalla stazione
verso il centro. In cento metri, sette kebab….mangio falafel e bevo Coca-Cola.
McDonald deve aver perso la sua battaglia della globalizzazione. Il kebab è il
cibo più diffuso in Occidente. Mangio le stesse polpettine che divoravo ogni
sera in via delle Beccherie a Matera. Matera e Perpignan, provincia del
MedioOriente gastronomico. Carne che arriva dalla Germania dopo essere passata
per la Nuova Zelanda o l’Argentina. C’è della potenza spaventosa in questo
andirivieni del cibo sopra gli oceani. I kebabbari sono arabi. Gentili, quasi
premurosi. Gli istruttori delle hostess non sono passati di qui. Pareti nude
del loro negozio. Sedie di plastica.
Perpignan |
Cammino per le strade di Perpignan. Arabi e fotografi. Una
piccola geografia di punk a bestia agli angoli del centro. Piccole strade, labirinto
di viuzze. Ancora kebab. Un vecchio in jallabia seduto e perso di fronte al
negozio del figlio. Mi perdo, mi ritrovo, giro a caso. Non chiedo. Mi ostino a
cercare di orientarmi. Scappo. Spero di imbattermi in qualche mostra. Non ho
voglia di andare ad accreditarmi. Vogliono sessante euro. Cammino fino alla
stanchezza. La mostra di Sebastiano Tomada. Le foto di Aleppo. Il dramma di
Aleppo. Sì, servono le foto. Eccome se servono. Fanno vedere i corpi, il
disastro del viso, il sangue, le ferite, l’urlo. Il sangue sulle jallabia
bianche. Sebastiano e il suo stampatore donano tonalità pallide alle foto.
Penso alla guerra in bianco e nero di Mc Cullin. Sebastiano sa essere lì, in
mezzo ai feriti e ai morti, e ci si rende conto che sta ‘partecipando’. Non è
un estraneo, non è un osservatore. E’ parte di quella guerra. Lo vedrò poche
ore dopo: ha l’aria smarrita, sorride timidamente.
Nelle foto, vi è sempre il nome dello stampatore.
La mia attenzione sul guanto bianco (foto di Sebastiano Tomado) |
Mi colpisce una foto di capre che brucano fra le macerie del
quartiere di Machhad ad Aleppo.
Osservo un guanto di plastica accanto al viso disperato di
un uomo ferito. I suoi occhi. Il sangue sulla jallabia. Mi fisso sul pacchetto
di Gauloise che spunta dal taschino della camicia di un uomo ferito che viene
trasportato in maniera scomposta lontano dalle bombe.
Il pacchetto di Gauloise |
Ci sono sempre autobus carbonizzati in queste foto. E uomini
armati che camminano con superbia in mezzo a strada in rovina. La ‘felicità
della guerra’, ha scritto Hillman. E il generale Patton guardando la collina dei
morti sussurra: ‘Quanto mi piace tutto questo’. Almeno fino a quando non ti fai
male.
La mostra di Darcy Padilla |
La chiesa dei Domenicani e la mostra di McCullin |
Sono troppe le foto di Mc Cullin. Sono nella chiesa dei
domenicani. Ci passo davanti senza fermarmi. Sosto soltanto davanti ai
miliziani cristiani a Beiruth, foto scattata negli anni della guerra civile.
Uno di loro sta suonando la mandola araba. Mi sembra che una donna accenni il
passo di un ballo. Il suo compagno ha un Ak-47 in mano. Hanno appena sparato,
forse. Ai palestinesi. Erano i giorni di Sabra e Chatila.
Sui muri di Campo Santo |
Su un muro di Campo Santo, lucciole di carta giocano con una
scimmia che passeggia tranquilla a quattro zampe. Prendo fiato. Altre persone
si mettono a guardare con me questo strano collage.
Il cerchio del silenzio |
In una piazza incontro una decina di persone, tutte anziane
(la mia età), che stanno in cerchio in silenzio. Al centro una lanterna. Saprò
che ogni primo giovedì del mese vengono qui. E compongono questo cerchio.
Vogliono ricordare gli immigrati e le ingiustizie commesse contro di loro. Due
giovani fotografi si uniscono al cerchio.
Cercando di capire la geografia del festival |
Poliziotti-rambo controllano gli accessi alla proiezioni
serali. Uomini dello staff, con fisici da culturisti, respingono chi non ha
badge. Almeno a questo ingresso. Uno di loro mi vede spaesato e mi regala il
biglietto: ‘Domani se lo procuri’.
Visa pour l'image (ci ho messo un po' a capire Visa, è la mia prima volta) |
Le foto raccontano dell’anno appena passato. Dalla morte di
Chavez alle fabbriche incenerite del Bangladesh, dalla miseria di Cipro alla
guerra civile in Messico fra bande di narco: è accaduto qualcosa di bello in
questo anno? Cerco una buona notizia. Premiano Mc Cullin. Ha occhi chiari e una
bella faccia. Dice: ‘Sono imbarazzato a mostrare davanti a voi il dolore delle
persone he ho fotografato’.
Sul palco. Non ricordo il nome dei due fotografi |
Alla fine, saliamo, invitati, tutti sul palco. Centinaia e
centinaia di persone. Per ricordare due fotografi francesi prigionieri in
Siria. Un momento di silenzio. Non so cosa voglia dire non dimenticate: ma non
dimenticate i due francesi e nemmeno Dominico Quirino e padre Paolo Dall’Oglio.
Anche loro inghiottiti dalla ferocia che si è scatenata in Siria. Soprattutto
non dimenticate i siriani.
A mezzanotte è ancora il kebab. Cos’altro possono mangiare? Questa
volta ci sono due ragazzi. Oggi è giorno di falafel. Mi sento pesante.
E in tasca ho la mia Lumix. Ho barato un po’.
Davvero bei racconti quelli di Semplici, che scopro grazie alla passione comune per la paesologia. Insomma, dalla qualità fuorisce spesso altra grande qualità. Grazie Andrea.
RispondiEliminaSandro Abruzzese
Grazie a te, Sandro.....faccio qualche fatica a riconoscermi.....ma sono felice delle tue parole..in realtà scrivo in fretta, senza pensarci, ci vorrebbe 'cura'...un abbraccio
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