Questo è davvero un racconto senza immagini. E per di più caratteri bianchi su sfondi neri (qualcuno sa aiutarmi a cambiare grafiche di questo blog?). E' quasi impossibile leggere diecimila battute, cinque pagine di frammenti. Io non lo farei. Ho la Lumix, la uso, ma davvero ho voglia di raccontare i miei frammenti del festival di fotogiornalismo di Perpignan senza una sola immagine. E così mi sento fotografo e non giornalista. Accidenti, c'è scritto 'presse' sul mio accredito e non 'photo'. Se seguite il nome dei fotografi, troverete i loro lavori e potrete vederli.
Forse, fra qualche giorno, metterò una foto di Darcy Padilla. Perchè sì, lei, mi ha preso per mano e non so dove mi abbia portato.
Martedì scorso, Darcy Padilla ha ricevuto una mail da
Portland. Le annunciava il primo giorno di scuola di Elyssa, la figlia di Julie
e di Jason. Darcy ha un sorriso, alza le braccia, lei parla alzando le braccia.
E’ contenta come se Elyssa fosse sua figlia. Un po’, lo è.
Tutto è raccontato: http://www.darcypadilla.com/thejulieproject/intro.html.
Passo dopo passo. Una macchina fotografica che non ha reticenze, non si tira
indietro. Non nasconde. Rivela. Dice. Abbraccia.
La storia che raccontano le fotografie di Darcy Padilla,
fotografa californiana, non mi lascia in pace. Mi trattiene a Perpignan. E’ la
ragione per la quale valeva la pena venire fino a qua. Al Visa, alla
venticinquesima edizione del festival del fotogiornalismo.
Il lavoro di Darcy è un workinprogress. Un lavoro che
continua da venti anni. Che non finirà mai, solo quando Darcy deporrà la
macchina fotografica. E, forse, nemmeno allora. Cominciò in un giorno di
febbraio del 1993 quando incontrò Julie nell’ingresso del hotel Ambassador a San
Francisco. Julie aveva in braccio la sua prima figlia. Aveva otto
giorni Rachael. E Darcy, giovane fotografa, voleva raccontare, con la fotografia
la storia degli uomini e delle donne che vivevano in un albergo per gente senza
fissa dimora. Non immaginava che questo incontro avrebbe segnato tutta la sua
vita.
Non riesco a uscire dalla cappella dove Darcy mette in
mostra gli anni che ha passato con Julie, con Jason e con Elyssa. Darcy ha
raccontato la storia, senza speranza, di un uomo e una donna devastati
dall’aids e dall’emarginazione. ‘Io volevo solo capire com’è possibile che
questo accada a una donna come Julie’. Raccontare questa storia vuol dire
‘condividere’. Vuol dire ‘esserci’. Vuol dire passare settimane e settimane,
mesi e mesi, anni e anni, con loro. Vuol dire diventare parte di questa
famiglia che vive in una casa senza luce e senz’acqua. Vuol dire vedere la
devastazione delle anime e dei corpi. Vuol dire che la macchina fotografica
scatta quando qualcosa, che nemmeno percepisci, accade. Lo sguardo di Elyssa si
alza verso il cielo e lo sguardo del padre Jason guarda in camera. Questo è un istante
che ‘racconta’.
Darcy sa di essere prigioniera
di questa storia. Ha vissuto la morte di Jack, il primo compagno di Julie,
la separazione di lei dai suoi figli. Ha conosciuto Jason, il nuovo compagno di
Julie. Li ha seguiti nella loro migrazione verso l’Alaska. Ha visto nascere
Elyssa: è uscita dalla pancia di sua madre con le mani levate verso l’alto. Era
lei nella sala del parto. Ha visto morire Julie. E ha continuato a vivere con Jason e Julie. Ha assistito
ai litigi, alla loro solitudine, alla disperazione. Ancora una migrazione: a
Portland, la famiglia adottiva di Jason che lo ritrova grazie al sito di Darcy,
una nuova possibilità. Elyssa va a vivere con la sorella adottiva di Jason.
L’uomo rimane solo. Le lacrime sul suo volto. Ma oggi Jason è nuovamente in
carcere. Elyssa, storia che ancora non è stata raccontata, è andata a scuola
nemmeno una settimana fa. Darcy sorride.
E’ un lavoro che stordisce, quello di Darcy. ‘Elyssa è una
bambina luminosa’, dice la fotografa.
Spiega tecniche: ‘Ho cominciato negli anni ’90. L’hotel
Ambassador era scuro. Potevo usare solo il bianco nero, avevo bisogno di
‘spingere’ la pellicola’.
C’è qualcosa che lascia interdetti a Perpignan. Alla fine ti
senti accerchiato da un mondo splatter.
C’è solo sangue, corpi spezzati, bruciati, fatti a pezzi, malattie terribili:
questo è il fotogiornalismo del festival, mi spiegano. Non appare un filo di
speranza. Ricordo quando rifiutarono una foto di una bambina palestinese in una
rivista di prestigio. Il fotoeditor disse: ‘Sorride’. E la scartò. Il mondo
deve essere una maledizione. Mi piace Majiid Saeedi, fotografo iraniano, che
fotografa un buon pranzo in un ristorante di Herat. Il mio ricordo della
Palestina, oltre i check-point, è quello di un popolo che cercava di afferrare
i frammenti di gioia che anche là la vita riesce a offrire. Abbiamo passato belle serate in Palestina.
Perché oltre duecentomila persone, contate tutte una per
una, su foglietti di carta in cui i ragazzi alla porta mettono crocette, vengono a vedere tutta questa disperazione?
Queste storie devono essere raccontate, è vero.
Altrimenti, la Siria è una riga distratta su un giornale, un’immagine della
televisione all’ora di cena.
La contraddizione è fra le mostre, colme di sangue, e le
birre che scorrono, con ebbrezza, nei bistrot delle città. C’è un clima di
adrenalina, voglia di festa a Perpignan. Reazione ai bambini sventrati che
abbiamo appena visto proiettati in un luogo che si chiama Campo Santo?
Dovrei leggere prima di scrivere. Non lo faccio.
C'è il solito tabù in tutto questo festival: non si parla pubblicamente di soldi. Canon e Getty Image sono gli sponsor, ma, alle proiezioni, non viene detta la cifra. E quanti di questi grandi reportage sono figli di sacrosanti compensi a chi si è fatto fotografare? Solo gli assegni delle 'borse' e dei 'premi' ai fotografi sono annunciati.
Arriva la ministra della cultura francese e appaiono
poliziotti-rambo armati come marines. Hanno un’aria tetra e inutilmente feroce.
Stonano. Mettono barriere ovunque e ti guardano con cattiveria. Hanno
auricolari alle orecchie. Anche gli uomini della security del festival non
hanno un’aria da dame della carità. Che qualcuno li fotografi. Nessuno li
fotografa.
Mi piace una stampatore di Barcellona. In un mondo di soli
Mac (Bill Gates si metterebbe a piangere in queste sale: qui esiste solo la
mela morsicata sapientemente illuminata), questo ragazzo snodabile e sudato
(una treccia rasta, un anello al naso, capelli rasi) gira con una scatola di
legno da cui estrae stampe raffinate con tanto di timbro della stampante. Mi
piace. Ma le foto, ovviamente, raccontano di guerre. Con stampa elegante come
una cena reale. (www.addretouch.com)
Mi torna sempre in mente Hillman: ‘Agli uomini piace la
guerra. La felicità della guerra. Il senso di onnipotenza nel tenere in mano un
Ak-47’. Chi di noi non vorrebbe essere
in quella casa di Aleppo appena abbattuta dal colpo di una carroarmato? Lì,
voglio stare. Quando l’aereo sganciò una bomba sulle capanne che ci nascondevano
pensavamo solo a come fotografare quanto stava accadendo. GoranTomasevic
rimpiange di non essere stato a Stalingrado. Goran va vicino. Ogni volta deve toccarsi per assicurarsi di non essere
stato ferito. Fotografa la morte. La guarda. Osserva uomini che rantolano nel
sangue. Dice: ‘Ogni retromarcia è esclusa’. Noi, spettatori, leggiamo la
didascalia e cerchiamo le tracce del sangue nel salotto dove stravaccano i
partigiani siriani.
Eppure le foto sono tutte uguali. Il cecchino scita di Najaf
è identico allo sniper di Sarajevo. Il vecchio che cammina di spalle in una
strada di Aleppo è uguale al vecchio che camminava di spalle a Vukovar. Le
guerre sono monotone. Il loro fascino è la ripetizione. Sono prive di fantasia. Bus bruciati, scale che non portano più da nessuna parte,
scuole distrutte in cui si intravedono i disegni dei bambini, sacche di flebo
tenute in mano sopra il corpo di un morente, pance sventrate che escono dai
pantaloni di chi prima esibiva la sua divisa da combattente alzando le due dita
in segno di vittoria. Tutto qui.
Majiid Saeedi è perfetto. Forse troppo. Racconta un altro
Afghanistan. Ma la geometria della foto del ristorante di Herat non ha una sola
sbavatura. E nemmeno il maestro coranico che invita al silenzio i suoi allievi
o l’uomo sospeso davanti a una gigantografia di Hamid Karzai. E’ quasi una
scenografia. Un quadro rinascimentale.
Nel 1388, scoppiò il primo conflitto fra gli inglesi e gli
afgani. Non finirà mai quella guerra.
Non mi convince il lavoro di Andrea Stav Rees. Ha
fotografato l’orrore dei ghetti per malati di mente in Indonesia. Troppe foto.
Troppo didascalico. Non emoziona. Guardo le foto come se dovessi ammirare un
quadro. Non avverto il dolore. Non ho sussulti. Temo che si sia solo estetica,
anche se la incrocio e mi convinco che la sua è stata passione. Deve togliere
almeno trenta foto. Saper togliere. Come si fa? Ma il volto della bambina di 15
anni incatenata, inchioda anche me alla sua prigionia. Come il corpo di un
ragazzo che cerca di bagnarsi in una doccia di cemento. Forse bastavano queste
due foto.
Vado a distrarmi con le foto di leoni di Michael Nichols.
Applausi. Ne avevo bisogno. La vita corta e felice dei leoni. Mi disturba solo
che voglia precisare: ‘Ho lavorato nel Serengeti. Per due anni. In zone chiuse
ai turisti’. E' che mi piacerebbe che i turisti potessero vedere quello che ha
visto Michael. Contraddizione. C’è anche una fotografa bravissima che è stata
capace di raccontare la lotte degli elefanti rimasti orfani. Non ne ricordo il
nome, ma mai ho visto foto così belle di questi animali.
Negli anni ’90, Joao Silva faceva parte del bang bang club. Scapestrati e guasconi fotografi
sudafricani. Donne e pallottole, alcol e sopra le righe. Sempre. Ubriacature
per ogni foto di morte pubblicata. Adrenalina a mille. In prima linea in ogni
violenza. Uno di loro si è suicidato dopo aver vinto un Pullitzer. Un altro
venne ucciso e la sua morte ripresa in diretta. Un fotografo prima scattò e poi
lo soccorse (almeno così viene raccontato in un film). Joao Silva non si è
fermato. Fino a un giorno di ottobre del 2010 quando è saltato su una mina in
Afghanistan. Ha perso entrambe le gambe. E’ ancora vivo e guarda i suoi figli
crescere, guarda la sua compagna passarsi la mano fra i capelli. ‘Sapevo che un
giorno sarebbe toccato a me’. Dice:‘Ho guardato le foto della mia vita e non ho
trovato il capolavoro’. Non ha risposte a domande che si pone di continuo,
Joao. Ricorda quando fotografò una bambina mutilata in Angola: ‘Mi guardava con
fierezza. Ero io ad aver paura’. E dice anche: ‘Ho ancora molto da imparare’. Mi
piace, Joao.
Guardo gli ultimi tre scatti degli sminatori con cui si
trovava quando la mina esplose.
I fotografi fotografati hanno sguardi privi di ogni
espressione. Non sono ne infastiditi, ne orgogliosi. Sono spenti. Come se la
loro vita si esaurisse dietro alla macchina fotografica. I loro occhi non hanno
l’intensità degli uomini e delle donne che fotografano.
E nel chiostro dei domenicani, c’è anche la mostra
dell’esercito francese. Hanno un involontario senso dell’ironia, i militari. In mezzo alle
mostre che raccontano lo sfacelo delle guerre, loro costruiscono una storia
sulla bellezza del fare il soldato.
Seguono passo passo le reclute Amir Desbois, Azhar Hassanie e Cyril Malahotky
(ehi, Francia, questo sì è un paese dai mille popoli) che, da giovani appena
usciti dalla scuole, diventano guerrieri e partono per il Ciad e il Mali. Nelle
foto si esaltano le mitragliatrici leggere che hanno una buona ‘cadenza di
tiro’ e Cyril è entusiasta del sistema di puntamento Felin…..perchè stanotte
non prendete qualche foto di corpi violati dalla mitragliatrice leggera e non
le poggiate sulle immagini di Devenir
Soldat?
Quanto vengono pagati i ragazzi che fanno i custodi delle
mostre?
E la sera si va al cafè de la Poste. C’è un altro caffè di
fronte. Semivuoto. Chissà cosa ha fatto di male. La gente di Visa preferisce la
Poste. Ci si affolla, si parla ad alta voce, ci si mette in mostra. Ci si sente
al centro del mondo. Dove i camerieri sono equilibristi devastati dalla fatica.
Stanno in piedi con la forza della volontà. E si muovono come marionette di
Charlot. Anche attorno a loro andrebbe fatto un reportage. C’è un nero che
spunta dalla finestrella della cucina e guarda con occhi bianchissimi e un’assente
curiosità.
Guardo le foto di Don McCullin e di John Morris. John era fotoeditor di Life a Londra
nel 1944, ma, per una volta, volle andare a fotografare la guerra. Partì per la
Normandia con una Rolleiflex. Scatti bellissimi. Guardo le loro foto. Guerre di
mille anni fa. Un mezzo tecnico diverso. Lento. Ma le foto di Don e di John
danno umanità. Mostrano empatia. Sono
pulite. Non omettono, ma provano
pietà. Hanno compassione, clemenza, stupore. Non sono una prova di coraggio o
di adrenalina. Come se i fotografi rimanessero senza parole di fronte
all’indicibile. Questo che quasi mai c’è nelle foto dei fotografi di oggi. Il
digitale, certo, non aiuta la partecipazione. E’ spietato, abbiamo scambiato relazioni umane e il dono del tempo con la velocità
e la comodità. Don e John hanno addosso un sentimento. Che è
tristezza. Malinconia. Quasi amore. La foto più celebre di Don: quel marine in
Viet-Nam, quel soldato seduto con il fucile in mano e gli occhi che si
intravedono sotto l’elmetto. Quegli occhi sono uno scambio con il fotografo. Un
patto fra loro due.
(mi viene il sospetto che questo sia un pensiero da uomo del
‘900).
Non c’è nemmeno una foto del latinoamerica. Non esiste per
il fotogiornalismo? Gli zapatisti non sono un buon soggetto?
Ma qualcuno ha mai pensato a fotografare la comunità araba
di Perpignan?
La grande, commovente dolcezza delle foto di Maika Elkaiv
sull’omosessualità in Viet-nam
Si è svuota la sala delle agenzie e dei portfolio. I ragazzi
staccano le foto. Rimango solo. Contro una finestra. Ho sonno. Hanno staccato
anche la connessione wi-fi. Finito. Che ci faccio qui? E ora dove vado? Fuori
si è messo a piovere. Esco. Cammino. Mi bagno. Non ho desideri.
Nessun commento:
Posta un commento