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La radura del'acacia |
Conoscere i propri passi. Il ritmo della discesa dal
vulcano. Mi rendo conto della mia assurda normalità
in questo luogo estremo. In queste frontiera del mondo. E’ vero: l’Erta Ale
è assopito, non si scuote nemmeno per un saluto. Sono io che mi inchino alla
sua indifferenza. So che sorveglia i nostri movimenti.
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'Padre e figlio' |
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Ibrahim, la giovane guida |
I nostri passi sono svelti. I cammelli sono partiti prima
dell’alba, una radio gracchia da qualche parte, gli scout avevano voglia di
tornarsene a casa. A loro non piace stare quassù. Non capiscono.
La nostra acacia è ancora al centro della radura. Solitaria,
tenace, dal tronco bianco-latte. Questa volta non passo a salutarla. Basta un
cenno del capo. Mi fermo invece ai tre hornitos.
Ai tre fratelli, ai guardiani della notte. Mi piace la loro antica ostinazione:
ci hanno provato a diventare vulcani. Ora so che si chiamano abakè berà, ‘padre e figlio’. Ci giro
attorno, Ibrahim compie gli stessi gesti che ho visto fare alle guide che lo
hanno preceduto. Si siede, si aggiusta la futà
e aspetta. Guarda questi strani turisti che si arrampicano su questi piccoli
vulcani. So che c’è un sentiero che da qui torna fino alla piana di Dodom.
Nemmeno questa volta convinco la guida a portarmici. Gli afar sono pigramente
conservatori. Il vulcano, alle nostre spalle, si nuovamente reso invisibile. Attende
nuovi ospiti e si nasconde. Tranquillità del fuoco. Noi non siamo stati da
nessuna parte.
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I nostri rifiuti |
Così non è. Qualcosa ricorda i giorni passati. I nostri
rifiuti, sacchi pieni di bottiglia di plastica, sono rimasti sul bordo della
caldera. I cammelli erano già partiti nella notte. Non c'era modo di portarli via. Mi rassicurano: ‘Li bruceremo’. Un
ragazzo mi chiede un fiammifero. Lo guardo sconsolato. Avevamo raccolto due
sacchi anche nel vulcano. Rimangono qua. Diverranno chiazze blu sulla lava. Gli
afar, ne sono certo, non ci vedono nulla di male. Le bottiglie di highland sul vulcano sono un problema
occidentale. La plastica non è stata inventata in Africa. I turisti le portano
fino a qua, devono portarsele via. Insostenibilità dell'homo turisticus.
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Gli alberi dell'Erta Ale |
Una vecchia colata sbarra l’ultimo orizzonte. So che quando
la scavalcheremo, un raggio di sole rimbalzerà sul parabrezza delle nostre
auto. Tre ore di cammino, hai voglia di vederlo questo riflesso. Ecco, il campo
base. Askoma Bahari, la ‘base della
montagna rossa’. Credo che questa traduzione se la siano inventata di sana
pianta. Noi abbiamo bisogno di nomi.
Quando ho chiesto come si chiama il wadi di Karsawaad mi è stato risposto: daarà, ‘fiume’. Ecco le due acacie, le
capanne, la ferita della radura creata dalla ruspe per accogliere gli
stranieri. Gli ultimi passi sono nella sabbia della cenere. Girano soldi ad askoma bahari: vengono pagate le guide,
gli scout, i soldati. ‘Non si finisce mai di pagare’.
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La piana di Dodom |
Sorgono nuovi villaggi nella piana di Dodom. Questa volta
viaggiamo ai confini fra polvere e lava. Nuovi insediamenti. Clan di formano e
si separano. Nuovi matrimoni. Villaggi familiari. Siamo fortunati. Niente
vento. Fango secco. Dodom è un postaccio. Ma deve esserci acqua da queste
parti. Gli afar hanno scelto di vivere in questa desolazione. Sanno che qui ci
sono risorse. Affrontano vento e polvere, fango e alluvioni. Pascolano vacche
magrissime. Deve essere piovuto molto nell’estate appena passata. Ci sono piccole
praterie. Non ci fermiamo. Nessun insabbiamento. Le macchine fanno slalom fra ciuffi di vegetazione e piccoli spiriti di terra bianca. Tranquillità della polvere.
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L'oasi di Waideddu |
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Osman Darolar |
A Waideddu, ‘l’oasi delle gazzelle’, la palme dum stanno
maturando i propri frutti. E’ stagione di raccolto. Raccolto povero: non danno
soddisfazione allo stomaco questi frutti. Un tempo, dal loro nocciolo, gli italiani ci ricavavano bottoni. Si avvicinano ragazzini. Come sempre,
stanno lì a guardarci. Passa un vecchio dalla barba rossa di hennè. Sta lì, in silenzio, in piedi. Ci
guarda anche lui. Non dice una parola. Si stanca e se ne va. Gli vado dietro:
si chiama Osman Darolar. Dice di
essere il capo di Waideddu. Fine della conversazione. Ma, per un po’, ci teniamo
per mano. Non ci guardiamo negli occhi. I ragazzini mangiano la polpa
filamentosa dei frutti della palma dum.
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Le acque del Saba River |
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Passare il Saba |
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Passare il Saba |
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Passare il Saba |
E’ piovuto in Tigray. Meno di due giorni fa. L’acqua sta
arrivando adesso nella conca dancala. Ha preso velocità, è diventata marea, onda, allagamento. Ha
rotto argini che non ci sono. Rash rallenta, è stupito. Forse spaventato. So
che già una volta qui si è impantanato ed è stato guaio serio. Bruck, il cuoco,
è già passato. In piedi con una vanga sull’altra sponda, fa grandi gesti della
mano. L’acqua cresce, corre, trascina. Rash rompe gli indugi. Si fida. Entriamo
dentro con forza. Le ruote fanno presa, il fondo del wadi non è ancora
fanghiglia. L’acqua sbatte contro la portiera. Ma la macchina è potente.
Passiamo tutti. Quasi con rabbia. Il Saba river continua a crescere. Si allarga
a delta, alimenta il lago As Sale. Cerca di trasformarsi in mare. Non ci
riuscirà. Ma l'acqua non è stata così tranquilla. Per stemperare la tensione facciamo una foto di gruppo.
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Arrivo ad Ahmed Ela. Molti anni fa |
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Affilare la godmà, la piccozza degli intagliatori del sale |
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Aisha intreccia le stuoie |
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I ragazzi di Ahmed Ela |
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Negozio ad Ahmed Ela |
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Lo spaccio di Ahmed Ela |
Ahmed Ela, ‘il pozzo di Ahmed’. Ci sono i camion delle
compagnie minerarire, l’antenna dei cellurari, il rombo dei generatori, l’accampamento
dei militari. Noto le differenze, i cambiamenti. Mi piace Ahmed Ela. Abbiamo la
stessa capanna. Oramai è ai bordi della strada sulla quale transitano i camion. Ci sono perfino i pulmini ad Ahmed Ela. I ragazzi, al solito arrivano con i letti sopra la testa. La
macchina dell’ospitalità si mette in moto per default. Letti volanti escono dalle burra afar e si mettono in fila di fronte alla nostra casa. Prendiamo
le misure del villaggio. Viavai di gente che sa del nostro arrivo. Vengono a
salutare. Le dagu, le notizie
arrivano veloci. Viene Alì, passa Fatuma, sempre più bella, ecco l'altro Alì che ripete il suo italiano come una litania rotta. Perfino Hussein viene a trovarci. Ne sono lusingato. Mi dice: 'Non lavoro più per gli indiani, ora faccio il manager di Ahmed Ela'. Lo so: la Bhp, compagnia indiana, ha ceduto i suoi diritti minerari ai canadesi. Land-grabbing del potassio.
City-tour: il
grande bar dei tigrini con le sue donne, il costruttore di letti, gli hedelè che affilano la piccola e pesante
piccozza con la quale taglieranno il sale, la madrasa, la moschea in pietra. Il pozzo, le donne con gli asini che
scendono la leggera scarpata e caracollano sui ciottoli. Le ragazze che
uniscono le ciglia con un tratto di matita. Ecco Aisha, ecco Dini, ecco Medina.
Sorridono e le due donne continuano a intrecciare foglie di palme. Non le ho
mai viste con le mani ferme. Mi siedo accanto alla nonna. E’ venuta a vivere
con il clan famigliare. In una capanna gli uomini ruminano chat. Mi tolgo le scarpe. So che arriverà il tè. Ecco, sono a
casa.
Ahmed Ela, 30 novembre
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