La donna somala è avvolta nella sua veste marrone. Il profilo di un vecchio volto. Il naso quasi invisibile, le grandi labbra. La donna è immensa. Quando si alza, è una eclissi di luce. La borse stretta sul grembo, la mole del suo corpo nasconde la cintura di sicurezza. Anello d’oro al dito. Mangia le noccioline a forma di aeroplano. Immobile. Non può tenere in equilibrio il tavolinetto dell’aereo. Il bicchiere della Mirinda cade. Non mangerà altro per tutto il volo, nonostante l’hostess rassicuri: ‘Halal, halal’. Andrà a Londra, immagino, la donna. Le nocche delle dita e la loro punta sono colorate da un hennè scuro come il sangue. La figlia avrà chiamato la madre nella capitale inglese? Il sedile dell’aereo la imprigiona, ma lei è abituata agli spazi ristretti nei camioncini del sua savana. Ora è la modernità.
Sto tornando in Italia. Dove sarà quasi primavera. Il rovo dai fiori bianchi, davanti a casa, almeno si farà illusioni. E, al solito, nostalgie, malinconie, senso di desolazione si confondono con emozioni leggere, punte di felicità, bluff di serenità. Mi manca ciò che non può mancare. E’ l’aereo che fa la sua rotta. Un ritorno che cerca un senso e non lo troverà. Dovrei diventare immobile come la donna somala. Ma io non ho sangue africano nelle vene. Dovrò scrivere di questo mese. Dovrò trovare le fila di quanto sta accadendo in Libia, un’altra mia terra.
Il blog, il web log, si è fermato in queste settimane. Per assenza di tecnologie nei deserti delle Dancalie. Una fortuna o una prigionia l’impossibilità della rete di raggiungere i vuoti della contemporaneità? Già, risposta non c’è. Come non c’era quando Bob Dylan lasciava volare le sue parole. Adesso proverò a ripercorrere questo mese africano. Non so se vi riuscirò.
La donna somala ha preso un aereo. Posto ventotto C, lato corridoio. Siamo a noi a essere imprigionati, credo.
Volo Addis Abeba-Roma, 10 marzo
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