martedì 12 febbraio 2013

Satriano di Lucania.2/Mascheramento di paese



Domenica, Satriano

Le temperature azzardano l’inverno di Satriano di Lucania. Stanno lì, sotto lo zero. Il paese si congela. Antonio e Matteo, padre e figlio, sono già nel garage. Le maschere sono spirito, ma nel dietroscena vi è un lavoro che sa di edera, di fil di ferro, di forbici, di stivali da pesca, di occhi con il nerofumo. E la moglie porta il caffè.
Antonio veste il figlio Matteo da rumit. Da eremita. Da uomo albero. Il gusto del travestimento. E poi la giornata. In fondo si chiede un dono in cambio di auspicio. A fine mattina, la bisaccia di Matteo tintinna di monete. Come la sacca di Pinocchio.
La maschera avrebbe dovuto uscire dopo la prima messa. Ma Matteo ha impazienza ed è perfettamente solo quando scende per le vie scoscese e ghiacciate del paese.

La solitudine del rumit

Seguo Matteo per le strade di un paese che non vuole svegliarsi. Un vecchio lo maltratta in malo modo. Una vecchia si ingentilisce e tira fuori venti centesimi. Il rumit struscia il suo bastone di pungitopo sui campanelli. A volte, infrange le regole: e suona. Ma non può parlare. Non può rispondere al citofono. Se ne sta lì. In piedi. Oscilla un po’. Aspetta. La voce dalla casa si scoccia. Il portone rimane chiuso. A volte, però, si apre e un bambino allunga la sua mano verso la bisaccia di Matteo-albero.

Il rumit e i paesani


Cerco conferme alle parole che volevano spiegarmi: ‘Il rumit purifica. E’ solitario. Raffigura la mitezza. Porta una speranza di bella stagione. Avverte che l’inverno sta finendo. Stanno per arrivare i tempi della fecondità’. Poi, nel Carnevale, anni fa, irruppe la modernità: ‘Quarant’anni fa, il rumit divenne il contadino che non emigrava. Forse era così povero che nemmeno poteva immaginarsi di andare via dal paese. Ma forse non voleva andarsene. Non voleva recidere il legame con il bosco, con la campagna, con il paese. Il rumit, eremita solitario, diceva ai paesani che qua si poteva restare, qua si poteva vivere’.

Qualcuno apre la porta

Ascolto. Annoto. Seguo Matteo e i suoi diciassette anni. Nessun dovrebbe sapere chi è. Maschera sconosciuta. Ma così non è. L’uomo-albero sa in quale casa andare. Appaiono altri due uomini-albero. Si guardano. Non si parlano. Ma fanno la stessa strada. Cercano porte diverse. Si infilano nei bar aperti. Qualcuno è infastidito. Altri si frugano nelle tasche. Il paese è rinserrato in sé stesso. Le finestre sono appannate dai vapori. Il cielo si riapre nella neve.

Incontro con altri rumit

Abbandono i rumit. Atri mi portano a camminare nella neve. Non c'entra niente, ma mi faccio trascinare. Alcuni chilometri a piedi belli e inutili. Parole e freddo. Aggiriamo il paese dai boschi, sprofondo nel fango e nella neve, cerco un significato. Non me lo chiedo. Guardo vecchie vigne, do una mano a spostare un tronco caduto, vedo macchie d’umido nei display delle macchine fotografiche. Sento gocce di ghiaccio imprigionare i piedi. 

Maschere

Biscotti, vino e focaccia. Nella piazza del paese. Mi spiegano ancora: ‘Guarda, il bastone di pungitopo, la maschera deve avere le mani nude ed essere costruita solo con l’edera’. Matteo ha camminato a lungo: è arrivato spelacchiato.


Cammino nel bosco

Mi invita a pranzo un operaio della Fiat di Melfi (e sua moglie e sua figlia), un camionista di Melfi e un venditore matto di tessuti di Melfi. Mi offrono baccalà e formaggio arrostito con il miele. Vino aglianico del Vulture. Parliamo degli operai. Io parlo degli alberi e dei ragazzi della Lucania. Ribaltamento del Carnevale: un operaio di Melfi offre il pranzo a un giornalista inoccupato. Sul baccalà un cuoco troppo perfetto ha piantato tre spaghetti fritti. Li scansiamo.

Coppia di sposi


Il professore

La sposa


Poi è solo sfilata di maschere.
Il paese si impossessa dell’allegria. Del vino. Perfino il cielo si intenerisce e si tinge di celeste-inverno. Appare un sole imprevisto. Ecco, le altre maschere. L’orso. Arrogante, prepotente, rumoroso. Ha subito un torto l’orso. Vuole vendicarlo. Vuole una sua vendetta. Insegue le ragazze. Entra nelle case e ruba salsicce. Apre le porte dei bar e mette a soqquadro tavoli e bicchieri. Scorrazzano gli orsi. Maschere aggressive. Vestite di sintetico. Un tempo erano pelli di capra e dovevano puzzare.
L’orso era anche l’emigrato che tornava al paese. Spavaldo, arricchito, padrone del mondo. Gli orsi si divertono da matti. Eppure dovrebbero avere addosso l’antipatia della prepotenza. Ma i ragazzini suonano campanacci e si godono la scorribanda per il corso.

Il filosofo rasta

Un filosofo rasta offre, con il suo carello, vino cotto. Fuma la pipa, ha occhi sgranati ed è felice di essere qui.

Le Quaresime

E poi le vecchie Quaresime. Non hanno casa. Hanno una culla con un bambino. Hanno perso tutto. Sono la fine del Carnevale. Perdono sangue dalla bocca. Hanno il  volto bianco. E le vesti nere.

Il corteo nuziale

E il corteo nuziale. Uomini e donne che si invertono le storie e i destini. Mascheramento. Carnevale puro. Raffazzonato e bello. Le ragazzine si tinteggiano le barbe, gli uomini si arrossano labbra e mettono su grandi tette. Il professore, divinità protettrice del Carnevale, guida la sfilata. Questa volta il paese c’è. I vecchi si affacciano alla finestra. I ragazzi si rincorrono. Le coppie se ne stanno in piedi mano nella mano. Vorrebbero partecipare, ma si frenano a vicenda. Gli orsi travolgono gli incerti. I rumit scombugliano il corteo e travolgono gli uomini-albero. I due organetti e il solo tamburello sembrano orchestra. Un eremita eretico danza sulla scalinata della chiesa. Meglio allontanarlo. Questa non è festa da religione.

Irruzione di orsi nel bar

La carica degli orsi

Il balcone sul corso

Il gelo fronteggia la sfilata. Non vi è il coraggio di scendere fino alla piazza solitaria. Non vi sarà banchetto nuziale. I ragazzi non vogliono sentirsi liberi di tornarsene a casa, vogliono intrappolarsi nella gioia di una serata a meno sei e, allora, danzano davanti al comune passandosi bicchieri di vino cotto. Un solo rumit si ostina a ballare in mezzo alla piccola folla. Gli uomini-albero scompaiono. Gli orsi lasciano la loro pelle. Una quaresima partorisce l’ultimo figlio. Focaccia piena e salsicce. Già, il paese.

Mi arrendo al gelo. Ho voglia solo di una coperta addosso. Risalgo da solo il corso. Attento a non scivolare.

I vecchi del bar Vibbò


C’è un vecchio che, in questi tre giorni di Satriano, ho sempre visto al bar Vibbò. Sta lì nella luce di una finestra. Una tenda arancione lo illumina in maniera lunare. Mi siedo accanto a lui. Il vecchio mi guarda: ‘A chi appartenete voi?’.
Satriano di Lucania, 10 febbraio



3 commenti:

  1. bello e interessante, come sempre, ma il finale del vecchietto illuminato dalla tenda arancione che dice: "a chi appartenete voi?" è meraviglioso.

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    1. Oh, sì, Isabella. Ho girato per i paesi di questa terra che non vuole liberarsi di me (o io non voglio liberarmi di lei). E, spesso, ho sentito chiedere dietro di me: 'A chi appartiene?'. Questa volta, il vecchio mi ha chiesto apertamente e io avrei voluto rispondere che appartenevo al paese. Mi piacerebbe appartenere a qualcuno, qualcosa.....

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    2. A proposito di appartenenza...

      http://www.youtube.com/watch?v=nbdN1Vx8uJo

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