martedì 1 febbraio 2011

Addio. Nel primo giorno dell'anno

Ho atteso. Non ero certo di volere mettere questa pagina in questo spazio così aperto e così incomprensibile per chi è nato nell'epoca della carta. E' passato un mese da un addio. Oggi, non so bene perché, ho deciso di affidarlo a questo luogo che non conosco. Forse perché non voglio dimenticare. Forse perché che non voglio che si dimentichi. In questi mesi ho scritto dei molti istanti, dei molti addii che hanno segnato i miei giorni. Ognuno ha la sua forza. Il suo essere unico. Ognuno dovrebbe essere raccontato. Perché l'uomo, qualsiasi uomo, deve lasciare tracce. Questo addio è stato dato il primo giorno dell'anno. Di quest'anno. 



Venezia


Vi è del sacro nella cerimonia che non è tale. Sono arrivati da lontano. Dalla Francia. Dalla Norvegia. Per un addio. Non è laicismo, è vita. La vita è fatta di cibo, sorrisi, lacrime, dolore, gioia. Intensa, in un giorno. Intensa e calda, in un giorno di freddo che congela la punta dei piedi. Al mattino, la nebbia era in equilibrio con il sole. Non si sfidavano. Convivevano. Sono andato fino alla grande agave. Da là il panorama si apre sulla valle. Il gioco dura un attimo. In tempo per vedere la strana forma della radura sulla collina di fronte.
Un giorno per l’addio. La casa è piena di ragazzi. Dagli occhi seri, dagli occhi rossi. Gli amici dei figli. In due gruppi. I più piccoli. I più grandi. Non si staccano. Si sfiorano le mani, gli abbracci, i baci che vorrebbero darsi. La casa è una biblioteca. Libri dovunque, Nel piccolo dedalo delle stanze che si intrecciano una sull’altra. Libri sulle scale, libri sotto il cuscino del divano. Il grande ritratto di lei, in abito bianco. Un quadro solare. Quante cose ci si lascia dietro. Quanto ingombro, quanta bellezza, quanta storia che pesa come un macigno, che è leggera come il tempo che passa. Si mangia, pentola sul tavolo, un buon vino, come se fosse una festa, come se fosse il primo di gennaio, come se i parenti fossero venuti per un incontro di gioia. Si parlano molte lingue. Lei è di là. Nella stanza piccola. Un corpo.
La grande carta della Grecia. Una mappa geografica di altri tempi. Ricorda gli anni della nostra scuola lontana. La casa è davvero troppo piena. Ma ogni oggetto non è figlio di un caso. Ma di una memoria. Una memoria che voleva essere conforto per gli occhi. Adesso cos’è?
La foto grande. Ha i toni bluastri di una foto scattata all’ombra. E’ una foto o un dipinto? Giardino di Boboli, ne sono quasi certo. Cosa significa questa foto? Perché è così grande? La statua raffigura un cane e osserva, con curiosità immobile,  una parete di cieli azzurri, di nuvole in fuga, di tramonti esuberanti, di giochi di vento con cumulonembi che diventano figure alate. E’ la bellezza. Un cane di pietra che osserva la bellezza. E il tuo corpo è quasi decentrato da questi sfondi. Forse perché non ho il coraggio di guardare. Mi appoggio allo stipite della porta.
Si muore l’ultimo dell’anno. Non si è più forti della morte l’ultimo dell’anno. Giorno-simbolo. Giorni che si mettono nella memoria. Io fatico a ricordare il giorno della morte di mio padre. Delle ultime ore di mia madre non ricordo nemmeno il mese. Faceva caldo, questo lo rammento. Nient’altro. Ero un ragazzo quando morì mio padre. Ero come questi ragazzi che stanno sul divano e non vogliono staccarsi uno dall’altro? Ricordo il padre di Fiammetta che venne fino a me e mi lasciò sua figlia davanti e le disse: ‘Stagli vicino’. Io avevo le mani in tasca. Faceva freddo, almeno credo di ricordarlo.  
Ora sto in piedi nella stanza piccola. Mi sono staccato dalla porta. Ma non faccio un passo. Forse penso a tutti gli anni nei quali non ci siamo visti. Penso a un vecchio viaggio a Milano fatto assieme in cerca di un lavoro improbabile. Penso a un capodanno che aveva un forte valore: il duemila, la notte del millennio. Ricordo l’orgoglio della tua pancia di donna di quarant’anni nelle vie del quartiere: ‘Sono brava, no?’.
Ancora un addio. Nel primo giorno dell’anno.
Rino ha molti anni e l’aria del vecchio professore. Una giacca di velluto a costoni larghi. Altri tempi. Chiede di leggere una pagina. Di poeti e di parole che aiutano a non credere alla morte. ‘Vieni’, finisce così il suo dire. Il figlio si avvicina al padre. Che si sfiora gli occhi per negarsi il pianto. Anch’io stringo la mano a mia figlia. Ci sono momenti in cui i gesti vengono fuori. La normalità che dovrebbe essere.
E’ l’ora. Il carro ingombra la piccola strada selciata. Vicolo della città popolare. La cassa non può salire, deve scendere il corpo. Avvolto nel lenzuolo azzurro. Ci vorranno giorni perché tutto diventi davvero cenere. Oramai ci sono file di fronte ai forni della cremazione. Allora bisogna sigillare, dicono gli uomini dalle facce ceree e l’aria inconfondibile di coloro per i quali la morte è un lavoro. I quattro uomini sono abituati al dolore. E non cambiano espressione. Sanno come non avere pensieri. Sembrano fuori posto. Sistemano i fiori senza nessuna cura. La macchina parte.
Non ci sono posti vuoti alle Cappelle del Commiato. Fa freddo. Dentro e fuori. Si muore davvero anche il primo gennaio. C’è molta gente. Andirivieni di un dolore che non grida. E’ quasi imbarazzo. Non c’è nessuna sacralità in queste ore dopo la morte. Ogni sentimento è schiacciato dai luoghi e dalle regole della burocrazia. Dalle abitudini di gente che ne ha viste troppe per sentirsi parte di qualcosa di sacro. Il custode ha una voglia di vino su metà della faccia. E’ efficiente e brusco. Dà consigli furbi ai dolenti. Le cappelle sembrano stanzette riservate. Su ognuna il nome, scritto a penna. Non fanno portare fiori. Rimangono fuori. Nel piazzale. Intravedo le casse degli altri (nessuno usa il termine bara), un velo sul corpo, la targhetta fuori scritta a mano, i parenti seduti su sedie di plastica verde. Nella ‘nostra’ stanza’, l’ultima, il fratello legge una poesia. Il lutto prende forma. I ragazzi non lasciano un solo secondo i figli. Qualcuno sfiora con una mano il legno della cassa. Un saluto.
Si torna nella casa del piccolo vicolo. Il giovane ragazzo migrante spolvera i libri con inutile meticolosità. Qualcosa deve pur fare. La cucina si riaffolla. Si prepara burro e salmone, si racconta di vecchi viaggi. Per vedere la Rivoluzione del Portogallo. 1975. Quanti anni sono passati? Quanto tempo? Sono belli i ricordi. Si apre un barattolo di crema di formaggio di capra. Hanno preparato uno strudel, un dolce all’arancio. Un vecchio ha portato un sacchetto di noci. Si apre un vinsanto e un Franciacorta. Si parla. Andirivieni di gente. Arriva anche il pittore che ha dipinto il suo quadro. Scambio telefoni, porto in giro il vassoio con il pane con burro e salmone. I ragazzi giocano in cerchio occupando l’ingresso. Andiamo via. Sfioro le mani della figlia. Prometto. Il figlio è andato a fare un giro per la città stremata dalla fine dell’anno. Firenze, oggi, non è bella. Ha un’aria stanca. Fuori fa freddo. A gennaio, l’inverno si fa livido sul serio.
Vorrei che anche il mio addio avesse la strana bellezza di queste ore appena passate. Questa strana normalità. Di un addio che non appare tale. I momenti della solitudine sono nella notte che verrà. Riappariranno di continuo. Il gatto color di un’arancia si aggira per la casa. Ci saranno momenti di tranquillità. Momenti in cui le lacrime si intrecceranno con i sorrisi. Nello stesso equilibro di una mattino di nebbia e sole. La vita si è incrociata con il suo mistero nel primo giorno dell’anno.
Addio. 
Firenze, due gennaio

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