venerdì 31 dicembre 2010


Devo intervistare dodici persone per un libro sullo 'sviluppo umano' curato da OxfamItalia. Per questo sono andato da Alex Zanotelli al rione Sanità a Napoli. Per la stessa ragione, sono andato a trovare Andrea Cornia, economista bolognese (lui di se stesso dice che è tosco-emiliano). Luogo diverso dalla microcasa-campanile di Alex. Appuntamento nella sua stanza (edificio D6, stanza 255) al nuovo campus universitario fiorentino a Novoli.
Ci saranno mille ragioni urbanistiche per aver trasferito tutte le università fiorentine in questa vicina periferia. Ma a me gli studenti piacevano nel centro della città. Almeno erano una folla diversa da quella dei turisti. Almeno c'erano trattorie e locali per studenti. Dove è finito Mario, celebre osteria di san Lorenzo? Vero, ora abbiamo lo splendore della biblioteca delle Oblate all'ombra della Cupola, ma la vitalità che si respirava fra via Laura e via Micheli, crocicchio di facoltà, mi sembra spenta nei corridoi senz'anima del campus di Novoli. Mi dicono che se non sei studente nemmeno puoi accedere alla biblioteca, si deve lasciare un documento per girellare fra le stanze e le aule. Insomma, sarà questione di nostalgia, ma non mi ritrovo. Nemmeno mi perdo: in fondo è facile trovare la stanza 255. Dico solo che se volevano costruirlo male questo campus, ci sono perfettamente riusciti. Un non-luogo, direbbe il celebre antropologo. Nemmeno bello come un aeroporto. Può nascere sapere in un non-luogo? Il corridoio-slargo delle stanze dei professori (le porte sono quasi sempre chiuse) è più ospedaliero (ma perché un ospedale deve assomigliare a un ospedale) che da posto in cui si costruisce una bella cultura. Mettete un quadro alle pareti, per favore. Le piccole sedie dalla stoffa azzurra sono da sala d'attesa di un dentista senza fantasia.
Andrea Cornia avrebbe molta voglia di parlare della sua produzione di olio in un piccolo podere di Fiesole. E credo che sarebbe stato saggio farlo. Ma l'intervista va fatta. E non va male. Anzi sono felice di scoprire che in America Latina la disuguaglianza, smentendo pessimistiche previsioni, è diminuita. Cornia non è Zanotelli, ragiona con l'econometria, con i modelli, con equazioni complesse. Ma anche lui appare contento di dimostrare che la diminuzione della disuguaglianza e la crescita della democrazia sia fortemente correlate. E che l'America Latina sia controtendenza: mentre in tutto il mondo la disuguaglianza cresce (in Cina, nel nuovo impero cinese, si è impennata), nell'America Latina delle democrazie di centrosinistra è diminuita.
San Casciano, 30 dicembre 

domenica 26 dicembre 2010

Karibù al rione Sanità. Un giorno con Zanotelli


Il campanile della grande chiesa di santa Maria nasconde una stramba casa verticale. Piazza centrale del quartiere Sanità, uno dei tanti ventri di Napoli. Padre Alexe (con l’accento sull’A fra questi vicoli) vive qui. Stremata bandiera della pace appesa a una finestra, portone verde, Karibù, Benvenuti, porta sempre aperta quando è in casa. Microstanza a piano terra invasa da cartelloni, striscioni, manifesti, riviste. Scala a chiocciola, strettissima e in pietra, che si arrampica verso il piano superiore. ‘Chi è?’, si sente la sua voce arrochita dall’inverno e dalle troppe riunioni. Voce da bluesman, se Alex cantasse. Al secondo piano, altro microspazio. La inevitabile maglietta colorata di Korogocho sotto il golf grigio con la lampo. Tavolo, cucina con antico fornello a due fuochi, bombola del gas, stufa elettrica, incerto groviglio di fili elettrici, forno a micronde da mercato bosniaco. Africa alle pareti, Korogocho non si dimentica. Alcuni ragazzi (microfono, computer) stanno intervistando padre Alex. Sale un uomo con i dolci fatti dalla sorella. Sale Vincenzo che deve parlare. Si affolla la cucina. Anch’io sono qui per una intervista. E vorrei essere qui e basta.

Alex sta bene, ha un’aria tranquilla. E’ perfino ingrassato, capelli quasi lunghi. So che si prendono cura di lui. Porta bene i suoi anni. Sul fornello un minestrone, verdure del Gruppo di Acquisto, bastoncini di pesce nel micronde. C’è tempo per un caffé che sbotta dalla macchinetta in equilibro precario. Libro di un biblista americano sul tavola. Il sole fatica a raggiungere le finestre della casa di Alex. Vanno via tutti, rimaniamo soli. Gioco perfido dell’intervista. Parliamo anche dei nostro passato. Dei giorni lontanissimi di Spello (lì nacque un pezzetto di Greta e questa è storia personale), di quelli, altrettanto lontani, di Korogocho (e quella storia, vivaddio, va avanti anche senza di lui). Parliamo di Nigrizia, della sua pressione alta, della fatica, della povertà. Del nostro mondo che non fa altro che litigare (si è spezzata anche Carta, il Pd tradisce).
Usciamo per la piazza. Da comprare i giornali (Repubblica, il Manifesto, tutto insoddisfacente), gli sgombri, da lasciare qualche spicciolo alla rom da sempre seduta davanti alla chiesa. Vuole che assaggi il pane del quartiere. Un saluto per tutti e tutti salutano. Io vengo subito catalogato: il giorno dopo quando da solo ripasserò per questa strada, mi avvicina un tipo e mi dice: ‘Voi cercate a padre Alexe? Tornerà fra poco’. Visto e preso.

Ma ora risaliamo. Scaldiamo il minestrone e i bastoncini. E poi insalata. Olio buono. Tutto molto piccante. Molto aglio. Alex ama i sapori forti. Preghiera, ringraziamento, vengo coinvolto anch’io nelle sue parole, sto in silenzio, non so dove mettere le mani. Mi viene voglia di pregare. Torna il ragazzo che voleva parlare. Dice degli studenti. Bisogna trovare tempo anche per lui. Salgono un altro piano di scala e ne ascolto le voci. Rigoverno i due piatti, preparo ancora il caffé. Voglio aspettare Felicetta. E’ una pediatra, lavora in neonatologia. Da quanto Alex è apparso a Napoli, si occupa di lui. Bisogna chiamare lei se si vuole conoscere il suo girovagare per l’Italia. Lei vigila sulla sua salute, evita che prenda troppi impegni, lo accompagna in macchina, gli racconta quanto accade per Napoli. Donna di passioni forti. Ha cercato di portare in piazza contro i rifiuti i medici con il camice. Niente da fare: sono venuti solo in dieci. Sono testardi, Alex e Felicetta. Lei arriva che sono quasi le tre. Direttamente dall’ospedale. Il minestrone viene riscaldato una volta di più. Felicetta ricorda almeno quattro impegni (incontri, visite, solidarietà a gente in sciopero della fame riunioni) per il pomeriggio. Io scatto foto. Alex e Felicetta fanno finta di niente.
Vado via. Questo tempo è stato un dono. Passeggio con lentezza nel caos aggrovigliato delle strade della Sanità. Guardo con sorpresa le architetture di palazzi da meraviglia. I loro cortili oggi sono un cumulo di auto, un labirinto di case slabbrate. Si abita ovunque alla Sanità. Nei vicoli sfrecciano i motorini. Guardo l’arco di piazza santa Maria. Censimento di negozi: una ricevitoria del lotto, un’agenzia d’affari che si occupa anche di pompe funebri (ma io sono di fuori e posso non capire), parrucchiere Sasà per donne, un altro centro scommesse, l’oasi Pacha, estetista specializzata in abbronzature, un minimarket con scritte solo in cirillico, un Caf della Cisal con un cartello che avverte: penalista sempre presente. La piazza è come un saggio di sociologia sulla Sanità. O, forse, ho voglia di capire troppo. Torna la donna rom davanti alla chiesa. Prometto a Massimo, della cooperativa Paranza (gestiscono servizi turistici) di tornare a visitare le catacombe. Passo davanti a santa Maria Saecula. So che qui è nato Totò. Non trovo la casa, mi arrendo troppo presto. Un gruppetto di ragazzini, appollaiati sulle Vespe, mi guarda passare.




domenica 19 dicembre 2010

Le arance del camionista


Livorno è una meraviglia in un’alba di ghiaccio
Incerto. Un’ora per uscire da Livorno.  Tornare indietro? Vago per una Toscana gelata. Chiusa la superstrada, dirottato su Cascina, una strada lungo un canale, dritto per Altopascio. A dieci all’ora. Il paesaggio di una bellezza irrimediabile. Il sole è magnifico. Code di camion a ogni svincolo. Ingorghi che si aggrovigliano attorno alle rotonde. Arroganza dei Suv.
Una mano si allunga fuori dal finestrino di un camion. Da quante ore cerchi una via di uscita? Un uomo con i baffi senza dire una sola parola. Uno sbuffo del respiro che si congela nell’aria. L’uomo ha un’arancia in mano e la porge a un altro camionista. Un lampo di colore nel bianco e nero del paesaggio. Scambio di gentilezza a mezz’aria. Fra due pachidermi.

A metà pomeriggio arrivo a Firenze. Come se fosse stata bombardata. Almeno nella periferia. Camioncini sbandati, auto in bilico sul bordo della strada, vesponi abbandonati sulle salite del Ponte all’Indiano, pezzi di parafanghi disseminati sull’asfalto, scheletri di catene saltate. Eppure, la città sgangherata sembra percorsa da un soprassalto di vitalità. La gente si incontra, ha cercato rifugio, ospitalità, riscoperte vecchie amicizie. Si è regalata tempo. Ha dormito in altre case, ha ritrovato la dimensione di una solidarietà. Uno dice: ‘Sono tornato a casa a piedi e incontrato persone che non vedevo da dieci anni. Mi ero dimenticato che vivevano a due passi da me’.
Lo scorso anno, in questi stessi giorni, un’altra nevicata inchiodò l’Italia. Allora ero in treno e impiegai mille ore per raggiungere Roma da Firenze. La neve, questa poca neve di ieri, venerdì 17 dicembre, potrebbe ricordarci che non tutto ci è concesso. Che ci sono dei limiti alla nostra potenza sulla natura.
Firenze, 18 dicembre

Venerdì 17



Venerdì, 17 dicembre, a Campiglia Marittima è cominciato a nevicare alle otto e trenta del mattino. La neve ha subito attaccato. E' stato l'inizio di una lunga giornata. 

Ore 9.
Mostrami tutta la tua potenza. E qualcuno accetta la sfida. Venti minuti. Venti minuti e le finestre si spalancano, la neve arriva da ogni lato, non cade, vola come una liana lungo linee orizzontali e oblique, ti accerchia e trova subito terra e cemento e asfalto sulla quale attaccare. 




Gli olivi sono alberi alpini, il mare è pista per sciatori, una parapendio si tira dietro un ragazzo vestito di nero in piedi su uno snow-board, i cani saltellano sorpresi, alcuni uomini maledicono il momento in cui sono usciti di casa, la ragazza del bar si infuria e sfascia il cellullare, altri se la godono provando numeri da equilibristi. La tormenta dà sfoggio di violenza perfetta. Bellissima nel suo ardore. Grandiosa nella sua forza. Non esiste difesa. Se non stare lì ad aspettare la sua clemenza. E, nel frattempo, fosse anche l’ultimo della tua  vita, godersela. Questi, davvero, sono istanti in cui pensi che vale la pena essere al mondo. Sono la ragione dei tuoi giorni: ammirare questo spettacolo che non può essere raccontato. Quale fotografia può rendere giustizia al mare che ‘fuma’. 
Le sue acque sono più calde dell’aria, più calde del cielo, più calde delle nuvole basse. E allora emettono vapori, ogni onda smuove fiocchi di vapori: è una nebbia che si innalza e vola veloce seguendo il ritmo di una marea incessante. E’ una mare atlantico che si è spostato sulle coste di Baratti. Una signora, per braccio a suo figlio, ride come una bambina felice e scatta fotografie con la delicatezza di un grande artista. Suo figlio è stupito di sua madre. Camminano, un braccio nel gomito dell’altro, lungo la spiaggia, e lei non vuole perdersi un solo istante di questo giorno che mai, nella sua vita, aveva visto.

Ore 16.
I momenti della paura sono stati sulla pista ghiacciata dell’autostrada. Claustrofobia a cielo aperto. Nessuna via di fuga. Il camion che ti si incolla alle spalle, vedi lo sperone del suo parafango all'altezza del tuo lunotto. Il tuo cammino diventa un risiko fuori equilibrio. Ti viene voglia di mettere una musica a tutto volume e lasciarti andare con un gran finale sperando che lo schianto sia immediato. Invece, vivacchi, facendo finta di non avere addosso una paura che manda a balzelloni il cuore. Immagino che il viso, coperto da sciarpa e berretto, non lasci intravedere nessuna emozione. Ma perché quel camion non si stacca da dietro? Sbandi sul ghiaccio e non puoi lasciarlo passare. Non c’è spazio. C’è solo un sentiero ghiacciato sul lato sinistro dell’autostrada dove forse puoi passare tenendo la prima ingranata e non pensando a cosa potrebbe accadere se le ruote si ribellassero a quel fragile comando del volante. Fai lampeggiare i fari posteriori e vai avanti. Perché niente altro è previsto dalla gabbia dell’autostrada. Scopri che non ci sono pensieri che ruzzolano nella testa: c’è da fare una cosa, andare avanti, e si fa. Alla fine, ti sposti sul ghiaccio e il camion ha uno moto stupido di rabbia. Clacson che fa sobbalzare, clacson che un urlo di pazzia e la sua massa rossa che sfiora (ti sembra che sfiori) il tuo sportello. Non passa mai la mole di questo pachiderma. E vai avanti. Il cielo si rabbuia e non sai dove è finita la paura. E’ impalpabile e invisibile. Ma assente dai tuoi gesti. Mani sul volante e qualche volta azzardi a mettere la seconda. Un altro camion. E gli stronzi con i Suv.

Ore 19.30
Siamo bloccati. Da un bel po’. Sulla doppia curva di un piccolo ponte. Strada di accesso a Livorno. Per arrivare fino a qui ho fatto lo slalom fra alberi abbattuti e la follia di un’autostrada di ghiaccio.

Il camionista rumeno ha una bella voce. Da cantante blues. Ma non passa le notti al Cotton Jazz Club. Ha solo fumato un milione di sigarette. Cento solo oggi, immagino. Ha il finestrino abbassato, nonostante le temperature sotto zero. Mi avvicino navigando su una lastra di ghiaccio. Lui scuote il fumo della sigaretta e ha un sorriso quasi divertito. Forse rassegnato, ma non dimesso, non amaro. Ha una sua dolcezza. E la barba puntuta. Non si è rasato questa mattina. E’ in viaggio da una dozzina di ore. E’ bloccato dalla neve, dagli alberi caduti, dagli immensi camion-cisterna finiti di traverso lungo il viale che conduce a Livorno. Città che non può essere raggiunta. E’ il suo mestiere, guidare camion. Non sembra poi molto preoccupato. Aspetta. Una sigaretta dopo l’altra, il gomito fuori dal finestrino e nessun consiglio. Né per sé stesso, né per me. Ma allunga una bottiglia di grappa e l’anima prende consolazione. Mi dice che forse dalla via del mare, se hanno liberato la strada dai tronchi degli alberi, si può passare. Lui non prova nemmeno, non c’è spazio per fare manovra. Aspetta. ‘La notte, qui’. Lo lascio con un gesto di intesa. Lui alza la mano e la cenere della sigaretta vola via. Fra lampeggianti e piste di neve ai bordi della passeggiata a mare arrivo in una Livorno deserta.

Ore 20
Infine, Monica. Come il tappo di una grande vasca, le auto si liberano. Scompaiono in qualche anfratto a me sconosciuto. La strada è un deserto. Livorno è un deserto. Ingresso dalla zona del porto e delle industrie. Un capannello di camionisti di camion-cisterna. Pozze di acqua sporca. Schizzi di qualcuno che passa troppo in fretta, mura che impediscono di vedere il groviglio di tubi e di edifici delle fabbriche. Entrare a Livorno assomiglia ai primi passi nella periferia di Bagdad. Un mondo in guerra perenne. Ha, devo ammetterlo alla mia anima malata, una sua fascinazione. Lascio che sia l’asfalto bagnato a guidare la mia macchina. Il paesaggio cambia: l’orrore urbanistico di questa periferia industriale lascia spazio, in un disonesto gioco del contrappasso, a mura medicee, banchine medioevali e alla bellezza dei lungomare liberty. Conosco le architetture del Bagno Pancaldi e della Terrazza Mascagni. So che le sue pietre, lavorate con maestrie da manovali più che esperti, sanno di mare. Qui vive Monica. Le finestre della sua casa danno su questo mondo. Ho conosciuto Monica appena una settimana fa. Un gioco di coincidenze e talismani che allacciano la Palestina al mondo andino del Nord dell’Argentina per approdare in una casa sul mare a Livorno. E non mi sono smarrito a seguire queste tracce. So ritrovare la casa di Monica (non è difficile). E la sua porta di apre, nonostante sbagli a suonare il campanello. Sapevo che questa casa era perfetta per viverci. Si sentono, nella notte, le onde correre sulle banchine, se ne immaginano gli spruzzi altissimi. Sembra di avvertirlo il mare attorno a questa casa.
Dovevano esserci amici a cena. Ci sono due orate. Questa giornata è una meraviglia. Le orate sono per me. Mi aspettavano. Sei ore per arrivare da Piombino a Livorno. E’ stato un grande venerdì 17. 



mercoledì 1 dicembre 2010

E ora che un aereo (lo stesso aereo, quasi gli stessi passeggeri, sicuramente lo stesso cane con una macchia nera sull’occhio che era sul volo dell’andata) mi ha riportato a casa?
Non si può trasformare un blog in un diario in pubblico. Non ho dimestichezza con questo strumento per capire bene cosa sia un blog. Sono un migrante della tecnologia. La diversità di un viaggio ha aiutato il racconto. Dal moleskine a un Acer One. Il racconto che cerca di trasformarsi in uno strano giornalismo. Autoreferenziale? Non so: il tentativo, sulle Ande, è stato il narrare quanto inevitabilmente accade in una terra diversa, in un viaggio, in un andare. Però basta aprire una finestra di casa, qui, in Italia, per vedere quante cose accadono anche qui. Quante storie, ora che ho fatto in tempo a vedere Fazio e Saviano raccontare, ci sono in questo paese. Sotto i nostri occhi. Banale, ma non così banale, scoprirlo ancora una volta.
Ma è possibile fare il giornalista senza un giornale?

E allora, adesso, notte fonda, ghiaccio al posto della prorompente primavera argentina, seguo la scia che lascia quella terra. Arrivo a casa che è buio. Niente luna. Abito in campagna. Funziona la luce crepuscolare, almeno una luce è accesa. Guardo i cancelli che serrano le case accanto alla mia. Cancelli chiusi. Ho un pensiero: sono venuto a vivere qui oltre venti anni fa. Mia figlia stava per nascere. Allora davanti a casa c’era una coppia di vecchi contadini, in altre due case abitavano altre coppie di cui siamo diventati amici (spesso cenavamo assieme, eravamo di continuo uno dall’altro). Non c’erano cancelli. Mia figlia ha vissuto i suoi primi anni di vita vagando di casa in casa. A volte la trovavamo sulle ginocchia dei due contadini. Andava anche a spasso sul trattore dello Zani.
I due vecchi non ci sono più, la loro casa è stata venduta, anche gli amici se ne sono andati per altre strade, e ora mi rendo conto che quasi non conosco i miei vicini. Ognuno vive oltre i propri cancelli. Per questo mi è tornata in mente Agua de Oro, il mio paese in Argentina. Il paese dove c’è la casa di Lucio y Gladys. Ho pensato che quando abbiamo cominciato il viaggio verso il Nord del paese, Lucio y Gladys hanno affidato la loro casa e i loro due cani ai vicini. C’è stata una cena di saluto, una promessa di racconti, una bella serata. C’erano tutti. A tirar tardi, a voler sapere del viaggio, a festeggiare il compleanno di Lucio, a voler incontrare gli amici stranieri. Ho intuito che c’era una comunità in quella strada di Agua de Oro. L’incontrarsi per un mate, per una chiacchiera, per un aiuto (nell’orto, in casa, per la lavatrice rotta…).
Questa comunità, anche nelle mie campagne, negli ultimi vent’anni, si è perduta. Questa è una ragione per andare via. Per tornare là dove esiste ancora un senso di umanità fra le persone e dove si vive bene se di poco ci si accontenta. Questa è una ragione per rimanere qua: per ricostruire un nuovo modo di stare assieme.

Si può scrivere questo su un blog. O è già un diario in pubblico?
San Casciano in Val di Pesa, 30 novembre