Il campanile della grande chiesa di santa Maria nasconde una stramba casa verticale. Piazza centrale del quartiere Sanità, uno dei tanti ventri di Napoli. Padre Alexe (con l’accento sull’A fra questi vicoli) vive qui. Stremata bandiera della pace appesa a una finestra, portone verde, Karibù, Benvenuti, porta sempre aperta quando è in casa. Microstanza a piano terra invasa da cartelloni, striscioni, manifesti, riviste. Scala a chiocciola, strettissima e in pietra, che si arrampica verso il piano superiore. ‘Chi è?’, si sente la sua voce arrochita dall’inverno e dalle troppe riunioni. Voce da bluesman, se Alex cantasse. Al secondo piano, altro microspazio. La inevitabile maglietta colorata di Korogocho sotto il golf grigio con la lampo. Tavolo, cucina con antico fornello a due fuochi, bombola del gas, stufa elettrica, incerto groviglio di fili elettrici, forno a micronde da mercato bosniaco. Africa alle pareti, Korogocho non si dimentica. Alcuni ragazzi (microfono, computer) stanno intervistando padre Alex. Sale un uomo con i dolci fatti dalla sorella. Sale Vincenzo che deve parlare. Si affolla la cucina. Anch’io sono qui per una intervista. E vorrei essere qui e basta.
Alex sta bene, ha un’aria tranquilla. E’ perfino ingrassato, capelli quasi lunghi. So che si prendono cura di lui. Porta bene i suoi anni. Sul fornello un minestrone, verdure del Gruppo di Acquisto, bastoncini di pesce nel micronde. C’è tempo per un caffé che sbotta dalla macchinetta in equilibro precario. Libro di un biblista americano sul tavola. Il sole fatica a raggiungere le finestre della casa di Alex. Vanno via tutti, rimaniamo soli. Gioco perfido dell’intervista. Parliamo anche dei nostro passato. Dei giorni lontanissimi di Spello (lì nacque un pezzetto di Greta e questa è storia personale), di quelli, altrettanto lontani, di Korogocho (e quella storia, vivaddio, va avanti anche senza di lui). Parliamo di Nigrizia, della sua pressione alta, della fatica, della povertà. Del nostro mondo che non fa altro che litigare (si è spezzata anche Carta, il Pd tradisce).
Usciamo per la piazza. Da comprare i giornali (Repubblica, il Manifesto, tutto insoddisfacente), gli sgombri, da lasciare qualche spicciolo alla rom da sempre seduta davanti alla chiesa. Vuole che assaggi il pane del quartiere. Un saluto per tutti e tutti salutano. Io vengo subito catalogato: il giorno dopo quando da solo ripasserò per questa strada, mi avvicina un tipo e mi dice: ‘Voi cercate a padre Alexe? Tornerà fra poco’. Visto e preso.
Ma ora risaliamo. Scaldiamo il minestrone e i bastoncini. E poi insalata. Olio buono. Tutto molto piccante. Molto aglio. Alex ama i sapori forti. Preghiera, ringraziamento, vengo coinvolto anch’io nelle sue parole, sto in silenzio, non so dove mettere le mani. Mi viene voglia di pregare. Torna il ragazzo che voleva parlare. Dice degli studenti. Bisogna trovare tempo anche per lui. Salgono un altro piano di scala e ne ascolto le voci. Rigoverno i due piatti, preparo ancora il caffé. Voglio aspettare Felicetta. E’ una pediatra, lavora in neonatologia. Da quanto Alex è apparso a Napoli, si occupa di lui. Bisogna chiamare lei se si vuole conoscere il suo girovagare per l’Italia. Lei vigila sulla sua salute, evita che prenda troppi impegni, lo accompagna in macchina, gli racconta quanto accade per Napoli. Donna di passioni forti. Ha cercato di portare in piazza contro i rifiuti i medici con il camice. Niente da fare: sono venuti solo in dieci. Sono testardi, Alex e Felicetta. Lei arriva che sono quasi le tre. Direttamente dall’ospedale. Il minestrone viene riscaldato una volta di più. Felicetta ricorda almeno quattro impegni (incontri, visite, solidarietà a gente in sciopero della fame riunioni) per il pomeriggio. Io scatto foto. Alex e Felicetta fanno finta di niente.
Vado via. Questo tempo è stato un dono. Passeggio con lentezza nel caos aggrovigliato delle strade della Sanità. Guardo con sorpresa le architetture di palazzi da meraviglia. I loro cortili oggi sono un cumulo di auto, un labirinto di case slabbrate. Si abita ovunque alla Sanità. Nei vicoli sfrecciano i motorini. Guardo l’arco di piazza santa Maria. Censimento di negozi: una ricevitoria del lotto, un’agenzia d’affari che si occupa anche di pompe funebri (ma io sono di fuori e posso non capire), parrucchiere Sasà per donne, un altro centro scommesse, l’oasi Pacha, estetista specializzata in abbronzature, un minimarket con scritte solo in cirillico, un Caf della Cisal con un cartello che avverte: penalista sempre presente. La piazza è come un saggio di sociologia sulla Sanità. O, forse, ho voglia di capire troppo. Torna la donna rom davanti alla chiesa. Prometto a Massimo, della cooperativa Paranza (gestiscono servizi turistici) di tornare a visitare le catacombe. Passo davanti a santa Maria Saecula. So che qui è nato Totò. Non trovo la casa, mi arrendo troppo presto. Un gruppetto di ragazzini, appollaiati sulle Vespe, mi guarda passare.
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