Il circolo della comunità 'africana' nella vecchia Gerusalemme |
Festival di Venezia, 2010. Julian Schnabel, artista e regista newyorchese, ebreo, ha presentato il suo film Miral, tratto dal libro La strada dei fiori di Miral di Rula Jebreal, giornalista e scrittrice, palestinese nata a Haifa. Rula è la compagna di Julian. Rula è figlia di un imam, uno dei guardiani della moschea di al-Aqsa. Il padre, ogni mattina, si alzava alle cinque di mattina per guidare la preghiera. Rula è una palestinese nera, una 'black palestinians', una donna con discendenze africane. Ancora oggi i black palestinians vivono accanto a uno degli ingressi di al-Aqsa. Sono una piccolo comunità, dimenticata perfino nell'universo palestinese. Un giorno assistetti a una partita di calcio a Tulkarem, nei Territori Palestinesi, e fui stupito di vedere molti giocatori dalla pelle nera. Venivano da Gerico. Dove la comunità di palestinesi dalle lontane origini africane è numerosa. Andai, allora, a trovare la piccola comunità di Gerusalemme. Mi parlarono di loro, mi parlarono di Rula. Che, in quelle settimane, stava aiutando Schnabel a girare il film. Questo articolo è uscito sul mensile Nigrizia.
Uno degli ingressi al quartiere 'africano' nella vecchia Gerusalemme |
Nato Africano, nato Palestinese
Alì Jedda, 58 anni, osserva con attenzione l’andirivieni della folla alla porta di Damasco. Città vecchia di Gerusalemme. Quartiere musulmano. Tavolinetto del popolare caffè Rihimon, un piccolo balcone sui gradini che discendono verso la Via Dolorosa. E’ mattina. La strada comincia ad animarsi. Ingorghi di uomini, donne con il velo, carretti, preti ortodossi dalle tuniche nere, mercanti, ragazzi senza lavoro, muscolosi agenti della sicurezza israeliana con pistola nei pantaloni, turisti con abiti colorati, anziani con la kefiah, qualche ebreo ortodosso che passa quasi correndo.
Alì Jedda nella sua casa nel quartiere 'africano |
Alì, una storia di militanza radicale, diciassette anni di prigione nelle carceri israeliane, è palestinese. Ed è nero. Africano. Suo padre era il mukthar, l’uomo ‘scelto’, il saggio della comunità afro-palestinese di Gerusalemme. Lui, oggi, ne è uno dei portavoce, uomo amato e rispettato fra gli stretti stradelli che conducono alla Spianata delle Moschee, uno dei cuori più sacri dell’Islam.
Caffè turco. Un’altra sigaretta. ‘Gerusalemme è la mia fidanzata’, dice, con parole studiate, Alì. E’ vero: fortissimo è il legame fra la comunità afro-palestinese e questa città. In fondo: questi africani hanno scelto di vivere qui. Il Ciad è lontano. Il Sahel è lontano. Sconosciuto, irraggiungibile. Troppo vago nel passato della famiglia. Muhammad, il padre di Alì, lasciò la sua terra, le savane attorno a N’Djamena, ottanta e più anni fa. Pellegrino musulmano sulle piste verso le città sante. Andò alla Mecca. Arrivò a Gerusalemme. Voleva pregare nella moschea di al-Aqsa. Si inginocchiò di fronte alla pietra del sacrificio di Abramo e nel luogo dal quale Maometto ascese verso i sette cieli. Muhammad Jedda non è mai tornato in Africa, si è sposato con donna africana, ha avuto figli, è morto in Palestina a 99 anni. Trovò la sua nuova terra fra le pietre e i vicoli da labirinto di Gerusalemme.
Fra le corti e le piccole stanze di due ribat, antichi ospitali islamici, già viveva, quando vi arrivò Muhammad, una piccola comunità africana. Erano le guardie e i custodi di al-Aqsa, avevano le chiavi dei grandi portoni delle Moschee, ne sorvegliavano uno degli ingressi principali. Compito di prestigio nelle gerarchie musulmane. Privilegio e dovere conservato fino alla Guerra dei Sei Giorni. E, in qualche modo, mantenuto anche dopo l’occupazione israeliana della Gerusalemme araba: uno dei nipoti di Muhammad è stato guardia del corpo del leader palestinese Faisal Hussein, allora, nei mesi dopo gli accordi di Oslo, ‘ministro’ per la città santa.
Eppure, nonostante questo ruolo storico, nessuno ha mai scritto la storia dei black-palestinians, degli afro-palestinesi. Nessuno ha mai realmente indagato su questa comunità africana che ancora vive nel cuore più profondo di Gerusalemme. ‘E’ come se fossimo invisbili’, dice Alì Jedda. Gli africani di Palestina non compaiono sulle mappe della città. Il loro piccolo quartiere, le corti di due antichi edifici medioevali, è ignorato dalla geografica ufficiale, etnica e religiosa, di Gerusalemme. Ma lo storico Arif al-Arif, primo sindaco arabo dopo la guerra del 1948, ha sempre riconosciuto le glorie degli afro-palestinesi: ‘Non hanno mai abbandonato Gerusalemme. Nemmeno negli anni più difficili’. Fu Arif ad affidare a questa piccola comunità la custodia della tomba di al-Busari, il notabile che, otto secoli prima, aveva fatto costruire il ‘quartiere’ nel quale oggi loro vivono. E’ appena fuori le mura sacre di al-Aqsa: in Al’a ad Deen street (in realtà uno stretto vicolo), abitano quasi cinquanta famiglie africane, poco meno di quattrocento persone stipate in un alveare di case minuscole ritagliate fra le pietre di due antichi palazzi mamelucchi. Fra il 1200 e il 1500, questi erano davvero ostelli religiosi. Nei secoli ottomani, fino alla Prima Guerra Mondiale, furono trasformati in prigioni per i condannati a morte e all’ergastolo. Nei primi del ‘900 diventarono ospizio per i poveri. Fino a quando, negli anni ’20, il controverso mufti di Gerusalemme Haj Amin Husseini (leader della resistenza palestinese, ma anche alleato di Hitler negli anni della Seconda Guerra Mondiale) non affidò i due antichi ribat agli africani di Gerusalemme. I due edifici, oggi, sono proprietà del waqf, associazione benefica islamica: la comunità nera della città santa paga un affitto simbolico.
Storia intrigante e sconosciuta, questi degli afro-palestinesi. Oggi loro rivendicano origini leggendarie. Bilal ibn Rabah al-Habashi, Bilal, il ‘figlio dell’Abissino’, un ex-schiavo africano, fu uno dei più fedeli compagni di Maometto. Primo muezzin della nuova religione. Era nero, proveniva dagli altopiani etiopici. Fu lui il capostipite degli al-Salamat, popolazione nera della penisola arabica? Nei lenti secoli della espansione musulmana in Nordafrica, gli al-Salamat seguirono l’ondata migratoria araba. Si fermarono ai confini fra Africa Nera e Sahel. In Sudan e in Ciad. Erano uomini di fede. Devoti e mistici. Divennero allevatori e contadini nelle oasi a ridosso del Sahara. Con il tempo, molti intrapresero immensi viaggi di ritorno verso la Mecca come pellegrini. Alcuni arrivarono fino a Gerusalemme. Spesso erano viaggi troppo lunghi per tornare a casa. E, in quei secoli, in Medioriente, stavano arrivando altri africani. Ma il loro destino era ben diverso da quello dei pellegrini: questi erano schiavi razziati da predoni arabi a sud del Sahara. L’Egitto era un grande mercato schiavista, frequentato dai beduini della Palestina e dei deserti del Medioriente. Avevano bisogno di mano d’opera per le piantagioni di cotone o per badare agli animali. Queste mercanti di uomini trascinarono milioni di schiavi verso la valle del Giordano e le aride piane del Tigri e dell’Eufrate. Incerta qualsiasi statistica: fra il 1500 e il 1900, dai tre ai nove milioni di africani potrebbero essere stati deportati verso i paese arabi del Mediterraneo orientale. In Palestina, oggi, vi sono comunità africane a Gerico, a Gaza e fra i beduini del Negev: stime inattendibili parlano di 60mila africani come discendenti di questi uomini e donne razziati per quattro secoli. Oggi sono comunità che ignorano, e vogliono ignorare, il loro passato. Sono palestinesi da generazioni. Nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, divennero gente in fuga. A Gerico, tuttora, vivono nel vecchio campo profughi. Diversa, invece, è la storia degli africani di Gerusalemme: Alì e la gente del suo quartiere sono gli eredi diretti (una prima generazione) di pellegrini musulmani o dei volontari africani che si erano arruolati negli eserciti arabi durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948. I loro paesi di origine sono il Ciad, il Sudan, il Senegal, la Nigeria. Nessuno di loro ha mai visto la terra dei loro padri.
Moussa, 48 anni, giornalista di al-Quds, giornale in lingua araba, appoggia il passaporto sul piccolo tavolo del salottino-ingresso. Documento prezioso. Passaporto francese del padre, rilasciato quarant’anni fa dal consolato di Parigi a Gerusalemme. Ben si capisce: el-Ghos Muhammad Khala era nato a Mosnia, in Ciad, allora colonia francese. Guardiano della moschea, anche a leggere il suo vecchio passaporto. Che non potè mai essere rinnovato. Il 1960 è l’anno delle indipendenze africane. Quale diventava la nazionalità di el-Ghos? I giordani che controllavano, allora, la Gerusalemme araba negarono la cittadinanza a quest’uomo africano. Eppure el-Ghos era qui da prima che i sovrani hashemiti entrassero nella città santa. La sua famiglia rimase senza documenti e, oggi, è ancora così. Moussa e i suoi fratelli, al pari degli altri abitanti di Gerusalemme Est, non sono giordani e, allo stesso tempo, non possono avere documenti palestinesi (la questione degli abitanti della Gerusalemme araba fu esclusa dagli accordi di Oslo). Solo Israele può dare a loro un lasciapassare dove scrivono che la loro cittadinanza è giordana. Ma, con un documento rilasciato dagli israeliani, ogni viaggio verso il Ciad, terra di origine, è vietato. ‘E io so che a N’Djamena mio padre aveva, prima di partire, un’altra famiglia’, dice Yasser, 35 anni, responsabile del centro sociale della comunità africana.
‘Noi siamo palestinesi, ma siamo anche orgogliosi delle nostre radici africane’, dice Moussa. In fondo qui, in Terra Santa, il groviglio delle identità è inestricabile (e, spesso, volutamente, ignorato): il padre di Moussa era un pastore della savana africana, un uomo religioso a tal punto da intraprendere un viaggio senza fine pur di pregare nei luoghi sacri dell’Islam; il figlio, invece, è stato un militante laico della resistenza palestinese (cinque anni di carcere). La moglie di Moussa è una palestinese nata negli Stati Uniti. I figli vanno alla scuola cristiana. Credo che Moussa mi dica la verità: la comunità, nonostante mille difficoltà ed esodi (dopo il 1967, un quarto degli africani di Gerusalemme fuggirono, come migliaia e migliaia di palestinesi, in Giordania), è unita. Ha ritmi quasi familiari. Da piccolo villaggio africano. Come potrebbe essere altrimenti: si vive gomito a gomito, in spazi ridotti. Matrimoni e nascite sono occasioni di feste comunitarie. Si mangia assieme nei cortili (‘Come fossimo sotto l’ombra di un grande albero’, dice Alì). Si dividono felicità e dolori. Le case sono ritagliate nelle vecchie celle delle antiche prigioni. Sono stati tirati su altri muri per avere almeno una stanza in più. Case buie e aggrovigliate. Colme di oggetti, di ritratti, di ninnoli, di fotografie. Il televisore sempre acceso. Il pranzo consumato seduti sui divani del salottino. I panni si stendono sul tetto. Spesso si dorme in molti in un’unica stanza. Alcune porte sono decorate con i disegni sfavillanti che fanno sapere dell’avvenuto pellegrinaggio alla Mecca. Il quartiere, a guardare i ragazzi che si rincorrono in bicicletta o stazionano sui gradini con aria da bulli, è un frammento di Africa.
Sono poveri, gli afro-palestinesi di Gerusalemme. Spesso liquidati come kushi, ‘i neri’, dagli israeliani. C’è, non detto, anche il razzismo degli arabi: ‘Esiste gente primitiva anche fra di noi’, dice Alì. Fanno i camerieri, i manovali a giornata, i fattorini, le infermiere. Sono disoccupati. Alto l’abbandono scolastico. Dura e in bilico la vita dei ragazzi. L’african community si è ricostruita (per trent’anni, fra il 1935 e il 1967 era esistito un Sudanese Welfare Club) in associazione proprio per tentare qualche intervento sociale. Soprattutto verso i bambini. Doposcuola, danze, ginnastiche, alfabetizzazioni. Sono rivoli di cooperazione che arrivano anche nelle corti di questo ‘quartiere’. ‘Viviamo una doppia marginalità – spiega Alì – Siamo palestinesi e siamo neri’. Hanno respinto, ricordano con fierezza, i tentativi israeliani di staccarli dalla causa palestinese: ‘Ci dicevano: ‘Siete africani, cosa c’entrate voi con gli arabi’ – racconta Yasser – Ci minacciavano, ma la Palestina è la nostra terra’. Sono radicali, gli afro-palestinesi. Molti hanno militato nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Alì Jedda non nasconde la ragione dei suoi 17 anni di carcere: nel 1968 mise una bomba nei quartieri ebraici di Gerusalemme Ovest. Nove persone furono ferite dalla sua esplosione. Alì aveva 18 anni e studiava legge. ‘Non rifarei mai un gesto simile. Ho cinque figli, amici ebrei: ho imparato che nessuno innocente deve pagare il prezzo di questa guerra. E so che le bombe non risolvono i nostri problemi. Ho pagato il mio prezzo, lo sto pagando ancor oggi’. Una foto, sopra il letto, lo ritrae mentre stringe la mano ad Arafat.
Si entra nel doppio ‘quartiere’ africano attraverso due archi medioevali. Pietre antiche. In realtà questo piccolo labirinto è un melting-pot. Una giovane donna russa, velata, insegna aerobica alle ragazze africane. Bambini‘bianchi’ baruffano e giocano con i loro coetanei neri. Le biciclette dei ragazzi sono troppo grandi per il vicolo: dieci metri e la corsa è già finita. Giovanotti con i capelli stirati dalla gommina fanno gesti da rapper. Poliziotti israeliani, con l’aria annoiata, sbarrano con transenne l’accesso ad al-Aqsa. Piccoli mercanti siedono, impigriti, dietro le loro bancarelle. Viavai continuo di fedeli verso la moschea. Strada ‘normale’ della città vecchia. La casa di Alì è piccola come un ripostiglio, ritagliata nell’angolo del cortile. Un letto, un divano, un tavolino, il frigorifero, fiori di plastica, la televisione sintonizzata su al-Jazeera. Alle pareti, la sua foto da ragazzo (con la cravatta) e le foto allegre dei figli alle pareti. ‘Vorrei che fossero avvocati o medici’, si augura Alì. Accanto alla foto della stretta di mano con Arafat, c’è una vecchia stampa che ritrae l’ingresso a Gerusalemme, pochi anni dopo la morte di Maometto, del califfo Omar ibn al-Khattab. Uno sguardo di Alì: ‘Il suo cammelliere era nero’.
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