Calcio
Ogni mattina passo davanti al club degli Ultras croati. E’ il bar dei tifosi del Zrinjski, la squadra di Mostar Ovest. Ha l’aria ‘tosta’, questo club. Ragazzi con magliette nere aderenti, occhiali scuri, faccia da duri. Adesivi con croce celtica. Un murale feroce: un tipo dalla testa pelata che sventola una bandiera bianco-crociata. Davanti al club, una moschea. Sempre chiusa, ma ben restaurata. Non vi ho mai visto un solo fedele. Qualcuno ha disegnato una croce uncinata sul cancello dell’ingresso. Musica hard dal club. Nome da nazionalisti di cultura, Zrinjski: Nikola Subic Zrinjski, generale croato, erede di una famiglia feudale, morì, nel 1566, nella difesa di Szigetvar, città ungherese, contro gli eserciti di Solimano, il Magnifico. Fort Alamo croato: duemila soldati cattolici contro oltre centomila musulmani. Raffinatezza da politici chiamare la squadra con il nome di un eroe nazionale croato. ‘Siamo di destra’, dice un ultra. ‘A little bit’, precisa.
Alla fine dell’800, erano più espliciti i notabili croati di Mostar che scelsero per la loro squadra di calcio il none di Hrvatski sokol, ‘il Falco Croato’. Glielo proibirono. Il Zrinjski risorse negli anni dello stato fascista di Croazia. Per scomparire con la Jugoslavia di Tito. Il calcio, nei Balcani, è politica. Nuova resurrezione del Zrinjski sotto i due campanili di Medjugorie nel 1992. C’è la Herceg-Bosnia croata e vi è bisogno di simboli. Per questo rinasce la squadra di calcio. Non c’è campionato, va a giocare in Croazia e fa trasferte in Germania e Canadà. L’antico eroe, sconfitto e ucciso dai Turchi, si trasforma in un centravanti.
La guerra finisce. Lo stadio della Collina Bianca rimane nella geografia croata di Mostar. Nemmeno a pensarci che possa essere restituito a quelli del Velez, la vecchia e gloriosa squadra di Mostar. Che loro giochino nei campetti delle campagne musulmane. Il Zrinjski si impossessa dello stadio. Due squadre nella città. Al diavolo gli slogan del Velez: ‘Unità’ e ‘Mostar nel cuore, Velez fino alla tomba’. La separazione della città divide anche e soprattutto le sue pulsioni calcistiche. I tifosi si organizzano per il derby come se fosse una battaglia. ‘Aspettiamo solo quel giorno’, dice un tifoso del Zrinjski. Con eccitazione, immagino. Si schiera l’esercito quando Velez e Zrinjski si sfidano. I croati, leggo nell’albo, hanno vinto scudetti nel nuovo campionato della Bosnia-Erzegovina.
Mi consigliano di girare alla larga dal club. Mi spiegano che quelli non amano le facce che non conoscono. Non è così: ci entriamo a prendere un caffé. Tutto qui. Non vado in cerca di guai e non chiedo caffé turco. Dopo un paio di giorni ho fatto l’abitudine a quell’affresco minaccioso, agli adesivi con le croce celtiche, alla musica dai bassi violenti. A notte, un comando automatico, accende le luci della moschea deserta. I ragazzi del bar fanno finta di niente. Ci sono linguaggi espliciti che si confrontano nell’anima di Mostar.
Segni di identità
In qualche modo si impara gli automatismi di un confronto silenzioso. Questa strada che percorro ogni matti, la via fra Didaka Buntica, attraversa, senza segni apparenti, il confine fra la Mostar croata e quella musulmana. Le scritte sui muri sono un segno. Il coraggio spudorato di chi le scrive si vede dai metri conquistati. I tifosi del Velez, i Red Army, l’Armata Rossa, si avvicinano più che possono al club degli Ultras. La scrittura dei loro slogan è nervosa, veloce, un po’ spaventata. C’è paura in questo scrivere a un passo dal nemico. Vi è paura dietro l’odio delle tue tifoserie.
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