martedì 30 ottobre 2012

1. I giorni di SlowFood/Too fast?


Il cuoco andava di corsa. Ma era molto simpatico. Mi piace lo stecchino in bocca


Cielo grigio topo su Torino. Primo giorno dell’inverno. Un venerdì. In bus sono spuntati giacconi e sciarpe. La pioggia è fastidiosa.
Vado al Salone del Gusto. Per la prima volta. Guardo i titoli della Stampa: notizia da locandina, 27mila persone, il giorno prima, hanno già varcato i cancelli della fiera biennale di SlowFood. Posso già dirvi: a domenica saranno quasi 200mila. Un’intera città.
Con gli ombrelli, centinaia di persone stanno in fila davanti al Lingotto. So che qui, un tempo, si costruiva la Fiat 1100.  Fabbrica fino al 1982. La guardo con quale emozione.
Giorno di SlowFood per le scuole. I ragazzi si accalcano sotto la pioggia.
Dribblo le code (e i venti euro del biglietto di ingresso) con un accredito stampa. Non mi sento colpevole: ho davvero intenzione di scrivere. Sugli africani presenti in fiera.


Piove sul Lingotto

Ci si intasa in ingresso


SlowFood, lo sapevo già, non è per niente slow. E’ fast. Molto fast. Sicuramente troppo fast per me. Vorrei dirgli: rallentate, per favore. Dimostratemi che è possibile ‘andare piano’.
Sala stampa. Cartella stampa racchiusa in una chiavetta da 2 giga.
Cibo gratuito per giornalisti. Saletta riservata. Trionfo di Apple: la mela morsicata, amata da Matteo Renzi, è simbolo di ‘modernità’. Roba da comunità progressista. (Io sto scrivendo su un Mac). Ottimi vini. Finger food. Niente fuori posto. Mi gusto un microprivilegio da giornalista. Ho un pregiudizio: i cameramen mi sembrano i più interessati al buffet.

Accredito giornalisti. Trionfo di Mac. Leggo che ci sono stati 'spiacevoli incidenti'. Già, chi è giornalista oggi? 

Ristoro per giornalisti


Un piccolo esercito di volontari sbarra i vari accessi e sorveglia che non si siano ingressi abusivi dove non si deve andare.
I comunicati stampa insistono sulla quantità. Le parole, a volte, sono davvero acqua: si spiega che la qualità è più importante, ma poi bisogna pur dire che ci sono mille espositori, duecento presidi italiani, 400 comunità internazionali del cibo. In un giorno, al giovedì, conto duecento e ventidue ‘eventi’. Mi arrendo. Mi sono già smarrito. Non so dove andare. Mi salva avere un appuntamento con delegazioni africane.

Cipolle extra-size

Assaggi a occhi chiusi


Camminiamo tutti a passo di marcia. Ho la sensazione che si salti di stand in stand. Mi chiedo quando sia costato uno spazio nella fiera. SlowFood previene ogni moralismo: il marchio Salone del Gusto vale 2,35 milioni di euro e genera ‘ricadute sul territorio’ per 40 milioni di euro. Poi i giornali raddoppiano: affari per 80 milioni attorno alla fiera di SlowFood. Onore al merito. Ho in mente qualche nome per il prossimo governo dell’economia. (ps: un taxista va più cauto: abbiamo fatto meno viaggi. Spero che sia merito della metropolitana). 

Cibo per delegati di Terra Madre. Sala pranzo


Aggiriamo le regole. Con gli africani, vorremmo andare a pranzo nella grande ‘mensa’ dei delegati. Un anziano (la mia età) volontario non mi fa entrare. Io ho un accredito da giornalista, non sono un ‘delegato’. Lui ha avuto disposizioni precise e c’è anche un secondo sbarramento da superare. Anche le fiere più libertarie creano divieti. Jane, di fronte al volontario, mi dà il suo passi da delegata. Io mi tolgo il mio da giornalista. Così il volontario è soddisfatto. Regola rispettata. Entro nella mensa come Jane. Tre minuti dopo Jane ha rimediato un altro passi. Adesso lei è Beatrice. Solving problem. Gli africani dell’Equatore sono vestiti come se andassero a sciare. Io mi tolgo il golf. Lasagne e zucchine. Buone le crostate.

Yogurt del Kenya


Mi aggiro per l’Africa. La delegazione del Kenya è composta da trentadue persone. Trovo i libici. Hanno il copricapo rosso dei cirenaici. Offrono datteri. Vengono da Jalo e da Jufrah. Il vecchio mi dice: ‘Gheddafi ha ucciso mio figlio. Ora siamo liberi’. Assaggio datteri deglat, quelli zuccherini. Prendo un libretto sui datteri. Progetto editoriale della cooperazione italiana. Progetto dei tempi di Gheddafi. Va bene anche per i governi provvisori. L’uomo di al-Jufrah mi dice che posso andare fino all’oasi. Con un accortezza: viaggiare di giorno.

Datteri di Jalo

Donna di al-Jufra

Tinbktu. Timbuctu. Timbouctou


Allo stand di Timbuctu ci sono donne spaesate. Hanno piccoli sacchetti con la loro pasta. Non oso chiedere chi comanda nella loro città. Come riferimento danno un numero di telefono della città sahariana.
Poi ci sono sette produttori di miele dall’Etiopia. Una donna del Sud siede su una sedia come una regina. Non si muove per ore e stringe la sua borsetta. Si mette in posa per la mia fotografia. Non riesco a farle nessuna domanda. Osservo le foto dell’orto in permacultura del Taitu Hotel ad Addis Abeba. Conosco bene quell’albergo. E’ uno dei luoghi che amo nella capitale dell’Etiopia. Mi incuriosisco per lo yogurt dei pokot e per il sale di un paese del Marocco.

Miele d'Etiopia
L'orto africano

Devo mandare questa foto ad Awasa

Ecco, loro sanno rallentare, farsi l'hennè a SlowFood


Passo del tempo di fronte allo stand dell’Erzegovina. C’è il nostro libro in vendita. Quello sui contadini della Bosnia. Viene venduto. Lo compra anche Jane. La versione in inglese. Ogni stand sembra preso d’assalto. Frenesia di acquisti, fila davanti all'unico bancomat. Vista con occhio maligno mi appare come uno shopping compulsivo. 
Ci sono volontari che spiegano davanti agli stand internazionali quando chi è arrivato dalla Bosnia o dall’Etiopia non riesce a raccontare. SlowFood è una macchina imponente. 

Fare la pasta con le cuffie
Lintizza, ducizza....


Devo andare via. Fuori piove da giorno di novembre. Una cuoca-attrice recita ‘il fare la pasta’. Tutto avviene open space. Il frastuono è quasi insopportabile. Niente è lasciato al caso. Agli spettatori che vogliono fare la pasta vengono date delle cuffie. Anche la cuoca-attrice ha cuffie e microfono. Lei parla per loro. Che, per venti minuti, vivono in un altro universo. Mi appare irreale.
Non invidio un produttore di morellino di Scansano che, allo stand della Coop, deve raccontare del suo vino in mezzo a un tumulto di persone in transito. Per fortuna girano i calici del vino.
Leggo: lentezza e dolcezza su una parte di legno dello stand della Sicilia. Mi guardo attorno. Cerco la lentezza e la dolcezza. Forse non ho lo spirito giusto. Ho voglia di una sagra di paese.
Ascolta le parole al telefono di un tipo che se ne sta immobile davanti a me. Dice: ‘E’ una festa proletaria. Una roba di sinistra’. Lo guardo con un sobbalzo. Mi giro e ho voglia di dirgli qualcosa. Lui fa tre passi veloci in avanti e svanisce in mezzo ad altre cento persone.
Torino, 26 ottobre


sabato 27 ottobre 2012

Come è fast il mondo Slow




SlowFood, cinque anni fa


Ecco, scopro che sono passati ben cinque anni da questa 'inchiesta' su SlowFood. Non mi chiedo se sia giusto 'ripubblicarla' oggi. Ma, assieme a migliaia di persone (sessantamila a oggi? 27mila solo il primo giorno) ho varcato i cancelli del Salone del Gusto e di TerraMadre. E sono stato travolto dalla sua imponenza. Mi sembra un po' fast il mondo slow. Un po' troppo fast. Almeno per me. Sembra che non ci sia mai tempo. Guardo due parole nello stand della Sicilia: lentezza/dolcezza e poi osservo la frenesia di cuochi, camerieri, volontari, visitatori....
Ecco, qui di seguito, quanto ho scritto cinque anni fa. So che dovrei scrivere sulla giornata appena passata. L'ho fatto, ma 'non c'è tempo', vado di fretta.

(L'articolo apparve in un bel numero di Altreconomia del 2007. Avremmo voluto farne altri sulle 'storie di successo' del politically correct - il fenomeno Grillo di allora, Emergency, Commercio Equo, Banca Etica - poi non ci riuscì. O forse non ne avemmo il coraggio. O ci parve non opportuno. Non so). 

Le foto sono state prese dal sito di SlowFood. Non ho trovato il tempo di scaricare le mie. Che sono molto diverse. Forse non ho visto le stesse cose del fotografo di SlowFood. O, forse, non ho avuto occhi.

(Da SlowFood.it)


Hanno salvato dall’oblio centinaia di prodotti della tradizione. Fondato una Università, una casa editrice e inventato il Salone del Gusto di Torino. Sotto il cappello di una onlus battono molti cuori. Che vanno fast 

La lentezza veloce di Slow Food
Scopro che Slow Food sta in via della Mendicità Istruita. A Bra. Provincia di Cuneo, terra da sempre di contadini democristiani. E questo mi sembra una buona ragione per andare a curiosare fra i labirinti di un movimento unico al mondo, fra i segreti-non segreti di una potente associazione ‘gastronomica’ (ma, anche e, forse, soprattutto, sociale, ambientalista, politica). E solo venendo qui, in una stretta e bella via pedonale di Bra, colonizzata dagli uffici di Slow Food, si intuisce la sua sorprendente grandiosità. Solo varcando l’arco della corte che conduce alla vecchia osteria del Boccondivino (là dove tutto è nato poco più di venti anni fa), si intravede la capacità di ‘essere comunità’ di quella che, nella preistoria di questo movimento, era ArciGola.

La scenografia di Slow Food, a Bra, è una modesta casa di ringhiera. Carlin Petrini, 57 anni, leader carismatico di Slow Food (ha lasciato lo scorso anno la presidenza italiana del movimento, per occuparsi dell’associazione internazionale), inserito, nel 2004, fra gli ‘eroi del nostro tempo’ dalla rivista Time, ha una stanza degna di un fattore di una bella tenuta delle Langhe. Mentre Roberto Burdese, 38 anni, l’erede di Carlin, da meno di un anno presidente di Slow Food Italia, divide il suo piccolo ufficio con la segretaria. Nei due piani della casa di ringhiera è un dedalo di stanze. Il popolo di Slow Food è una piccola moltitudine di ragazzi che ruotano attorno ai trent’anni. Identi-kit: laurea e master in tasca, multilingue, tecnologici, appassionati e devoti. Per una buona metà sono piemontesi. I braidesi sono ancora la folta maggioranza fra i dirigenti (Burdese è di Bra, ha cominciato a lavorare in Slow Food, diciassette anni fa, come obiettore) e non hanno nessuna intenzione di lasciare il controllo dell’associazione. Anche se, per la prima volta, a dirigere Slow Food Promozione, cassaforte dell’associazione, è stato chiamato un manager esterno. L’altra metà di chi qui lavora viene da mezza Italia e dall’estero. E tenete presente che Bra è fra i luoghi più irraggiungibili d’Italia.

Già che ci siamo: sono 151 i dipendenti di Slow Food. 96 sono a tempo indeterminato. Primo stipendio: 1149 euro lordi (930 netti) al mese. Salario di un dirigente: 2450 euro.   
Salgo le scale della palazzina di ringhiera alle otto e trenta del mattino e direi che sono tutti già chini sui loro computer. Penso ai numeri e alle storie di Slow Food (niente di segreto: sono sul loro sito internet. La trasparenza appare una dote preziosa dell’associazione): 83mila soci (trentamila in Italia, tessera da 58 euro all’anno); 25 milioni di euro di fatturato, una Università costata 24 milioni di euro (e ne costa sei di gestione annuale), eventi stellari come il Salone del Gusto (dove lo spazio di uno stand minuscolo valeva almeno 2500 euro) e Terra Madre (cinquemila contadini o loro rappresentanti atterrati a Torino lo scorso ottobre: un investimento da sei milioni di euro, pagati dalla Regione Piemonte, dalla città di Torino, dai ministeri dell’agricoltura e degli esteri). E ancora: sedi in sette paesi (grande successo in Giappone), associati in 122. E sapete una cosa? Questa multinazionale del ‘piacere, della biodiversità, dei saperi e dei sapori’ è, ancor oggi, un’associazione no profit. Che controlla due società (la Slow Food Promozione – vera macchina da eventi - e la Slow Food Editore – settanta titoli in catalogo e due belle riviste). Non solo: dalla fucina di via della Mendicità Istruita sono nate la Fondazione per la Biodiversità (sede legale a Firenze – il principale partner è la Regione Toscana con circa 100mila euro l’anno di finanziamenti) e la Fondazione Terra Madre, socio di riferimento la Città di Torino, nata per gestire la rete internazionale dei contadini sorta negli ultimi due anni. Non è finita: a Pollenzo, da un’altra idea in grande di Carlin Petrini, è sorta ‘l’Agenzia’. E’ una società per azioni pubblico-privato (presidente Oscar Farinetti, ex-proprietario di Unieuro) che ha salvato dalla rovina un’immensa fattoria dei Savoia: l’Agenzia l’ha comprata e, in quattro anni l’ha ristrutturata e trasformata nella regale sede della prima Università di Scienze Gastronomiche, di una Banca del Vino, di un albergo di lusso e di un ristorante stellato dalla guida Michelin. Capitale versato dell’Agenzia: 19 milioni di euro, tirati fuori da 322 ‘azionisti virtuosi’. In prima fila la Regione Piemonte dell’allora governatore forzista Enzo Ghigo, ma 311soci, il 68% del capitale sociale, sono privati.

(da SlowFood.it)


Petrini e la sua banda braidese hanno avuto ragione: negli anni ’80, anni di riflusso e delle malinconie di una sinistra nostalgica, questo gruppo di amanti del vino fonda ‘La libera e benemerita associazione Amici del Barolo’. Nel 1986 cominciano, con spavalderia, a togliere muffe dall’Arci e creano, dalla loro cantina langarola, l’ArciGola. Roba da eretici: parlare di ‘piacere’, mentre ancora c’è chi sogna la rivoluzione. ‘Ma perché non si può essere di sinistra e godersi la vita?’, chiese una volta, mille anni fa, Petrini a una festa dell’Unità a Montalcino di fronte a una ‘ribollita immangiabile’. Nacque, in quegli anni, la rivista La Gola, dove intellettuali raffinati si misero a discutere di cibo. Grandi proclami, manifesto di fondazione scritto da Folco Portinari, intellettuale e poeta, e serate passate a far baldoria in osteria. Gli eretici di Bra conoscevano già l’arte della comunicazione: un’associazione che si chiamava ArciGola non sarebbe andata oltre le osterie delle Langhe. Non so chi abbia tirato fuori dal cappello il logo Slow Food (sorto nel 1989: congresso fondativo a Parigi. Ovviamente), ma dovrebbero fargli un monumento.

Ma la nascita di Slow Food non è una forzatura testarda di un gruppo di langaroli. ‘I tempi erano maturi – ricorda Piero Sardo, 60 anni, un ‘vecchio’ braidese della banda ArciGola, oggi presidente della Fondazione per la Biodiversità – Noi non abbiamo fatto altro che far capire che vi era bisogno di un rapporto diverso con il cibo’. Ha ragione, Sardo: le accelerazioni di Slow Food sono state sante reazioni alle scelleratezze alimentari di quegli anni e agli inganni del fast food e del cibo industriale. Il 1986, anno di battesimo di ArciGola, non è un anno qualsiasi. A Narzole, una manciata di chilometri da Bra, viene venduto Barbera al metanolo: ucciderà diciannove persone. E’ anche l’anno di Chernobyl e dei terreni agricoli dell’Est europeo contaminati: che cosa abbiamo davvero mangiato in quei mesi?  Meno tragicamente, nel marzo del 1986, Mc Donald’s apre, fra le proteste di un protostorico movimento no-global, il primo, vero fast food italiano a un passo dalla scalinata di Trinità dei Monti a Roma. Ce n’era a sufficienza perché qualcuno avesse orecchi sensibili al nuovo vangelo di Slow Food.
Tredici anni più tardi, fra il 1999 e il 2000, il fantasma della Mucca Pazza semina il panico in mezza Europa: Slow Food, da tempo, aveva messo sul banco degli imputati l’agroindustria, ‘che inquina e danneggia l’ambiente più dell’industria’, sbottava già Petrini. Oggi Carlin quasi si arrabbia: ‘Un gastronomo che non si interroga su come è prodotto il cibo non è tale: è un incosciente e uno sciocco’. Gli anni a cavallo dei due millenni sono quelli della crescita vorticosa del ‘fenomeno Slow Food’.

(Da SlowFood.it)

‘Slow Food, in realtà, è una rete – mi spiega Roberto Burdese – Creiamo contatti, consapevolezze, comunicazione. Noi siamo solo il nodo centrale di una ragnatela che vuole allacciare tutte le comunità del cibo, dai contadini ai trasformatori, dai commercianti ai cuochi’. 
Attenzione, non andiamo di fretta. Questa è solo l’ultima mutazione di Slow Food. In mezzo c’è un cammino da maratoneti iperveloci. E, al fondo, ci sono sempre le idee formidabili di un ristretto gruppo di braidesi (cinque, sei persone che fra loro parlano solo in piemontese) riuniti attorno al profeta Carlin Petrini. Una vera famiglia, impermeabile, almeno fino a pochi anni fa, a qualsiasi intrusione esterna. Chi si è inventato l’Arca del Gusto (1996), catalogo di un centinaio di prodotti italiani a rischio di scomparsa? Chi, quattro anni dopo, al Salone del Gusto del 2000 ha fatto esordire i Presidi Slow Food? Sono tutte storie straordinarie. ‘Abbiamo aiutato prodotti in via di estinzione a ritrovare dignità e, soprattutto, reddito’, dice Petrini. I Presidi oggi sono più o meno duecento: si va dalla leggenda del lardo di Colonnata al sale marino artigianale di Cervia, dal fico dottato del Cosentino al violino di capra della Valchiavenna. I Presidi, in sei anni di vita, hanno ribaltato il destino di centinaia e centinaia di agricoltori, allevatori, osti e mercanti del cibo. I Presidi sono diventati uno dei simboli del successo di Slow Food. Sono stati, e sono, una formidabile operazione culturale ed economica. Che Slow Food cerca di governare senza vendere un solo salame. ‘Abbiamo fatto un’opera da restauratori’, dice Roberto Burdese. ‘Noi non vendiamo – avverte Piero Sardo – Diamo una mano a piccole realtà, facciamo promozione invitando i contadini ai nostri eventi, cerchiamo sponsor, mettiamo a punto disciplinari di produzione severi, ma non fiscali. Ma siamo un associazione privata: non diamo nessun marchio, non controlliamo, non certifichiamo niente. Nessuno può mettere il simbolo della chiocciola sul suo prodotto’. Verissimo, ma altrettanto vero che i prezzi del fagiolo zolfino sono schizzati del 93% da quando questo poverissimo e buonissimo legume è stato inserito nella lista dei Presidi. E che per comprare molti dei prodotti presenti negli elenchi Slow Food ci vogliono portafogli ben forniti.  ‘I Presidi sono stati la salvezza di molte colture che stavano scomparendo – dice Maria Grazia Mammuccini, amministratrice dell’Arsia, l’agenzia di sviluppo agricolo della Regione Toscana – E’ altrettanto vero che vi sono rischi di effetti distorsivi sul mercato’. Come dire: il benemerito meccanismo dei Presidi ha anche innescato speculazioni e furbizie di commercianti poco Slow. Il mondo dei contadini (che contadini non sono più: qui si sta parlando di piccoli imprenditori agricoli) non è mica un regno ideale: ha le sue gelosie, meschinità, avidità. Ne è consapevole Piero Sardo: ‘I contadini sono diffidenti, litigiosi: non è stato facile lavorare con loro. Ma sono orgoglioso che i Presidi abbiano salvato molti prodotti. Molti hanno ancora bisogno di sostegno. Ma è un fenomeno che si sta esaurendo: ne verranno creati un’altra decina. Non di più. Poi le porte si chiuderanno’.

Carlin Petrini (da wikipedia)



Ripetiamo: la corazzata Slow Food è no-profit, ma, qualunque cosa se ne pensi, è una azienda, quasi una multinazionale, un’impresa complessa da far marciare. La banda dell’ArciGola non si è accontentata di rimanere giocosamente in un’osteria di Bra: è uscita per il mondo e sta in questo impietoso sistema di mercato. Ha, cioè, bisogno di soldi per vivere. Ci sono i soci, ci sono i libri, i gadget e le consulenze. Ma c’è bisogno di molti ‘sponsor virtuosi’. E generosi. O capaci di intendere bene l’utopia concreta Slow Food. Cento e otto benefattori hanno contribuito a tenere in vita questo anno accademico dell’Università di Scienze Gastronomiche. Scorro i nomi dei ‘donatori’ di Slow Food: San Paolo (fa parte del gruppo San Paolo-Imi: sta al primo posto dell’elenco delle ‘banche armate’), caffè Lavazza, olio Carli, Lindt, Zonin, Bofrost, De Cecco, Hitachi, Coop e così via.  E, poi, ascolto Ivan Piasentin, braidese di origini venete, responsabile dell’ufficio commerciale: ‘Fra i nostri sponsor non troverai mai Nestlè, Unilever o Barilla. Ma non ti nascondo: ci poniamo di continuo problemi di coerenza. Cerchiamo di essere attenti, severi, di non tradire la filosofia Slow Food, ma di avere anche un buon senso pratico. Quando abbiamo dubbi abbiamo sempre a portata di mano la Guida al Consumo Critico di Francuccio Gesualdi. Vogliamo conoscere bene i nostri sponsor e i nostri inserzionisti’. In altre parole: non è un equilibrio facile vivere sui confini incerti delle sponsorizzazioni, dei soldi, dei vari fund rising  e le discussioni furibondi fra ‘idealisti’ e ‘realisti’ possono essere senza fine.

Carlin Petrini, due anni fa, contagiato dalla bella amicizia con l’intellettuale indiana Vandana Shiva, e con l’agroecologo cileno Miguel Altieri (cattedra a Berkeley), scrive ‘Buono, Pulito e Giusto’, fragile Bibbia italiana dell’ultima mutazione di Slow Food. Poi, lo scorso ottobre, a Torino per Terra Madre, arrivano, grazie a una rete capillare e  impressionante di sponsor, non solo i contadini, ma tutti gli attori della filiera del cibo. Sono, a credere a Slow Food, mille e seicento comunità del cibo.  ‘Il pianeta Terra sta correndo rischi terribili – spiega Petrini – E la responsabilità di questa devastazione è dovuta, al 70%, alla produzione di cibo. Il mercato non salverà questo mondo:  è un meccanismo obsoleto, incapace di trovare soluzioni alle crisi ambientali e sociali. Bisogna fare il possibile per invertire questa corsa verso il baratro’. Possono dare una mano a farlo (‘cambiare almeno un po’ il mondo’), secondo Carlin Petrini, tutti coloro che hanno a che fare con la produzione, il trasporto, la trasformazione, il consumo del cibo. La salvezza della Terra, sono certi in via della Mendicità Istruita, dipende dalla forza dei contadini (‘Sono la metà della popolazione umana’, osserva Petrini), delle piccole economie di artigiani, pescatori, coltivatori e seed savers. Anche i cuochi devono stare su questa trincea. Assieme ai commercianti del cibo. ‘Dobbiamo difendere i modelli produttivi piccoli e locali - sogna ancora Carlin - Slow Food vuole solo mettere in rete questo mondo altrimenti isolato, vuole abbattere le barriere che impediscono ai contadini di conoscersi a vicenda. E lo vogliamo fare sapendo che non saremo noi a governare la rete. Che questa sarà anarchica e si autogovernerà per conto suo’. E’ un’utopia visionaria? Un’impresa da ciclopi accecati da troppo successo?  Sullo sfondo rimane una domanda priva di risposta: cos’è Slow Food oggi? Un movimento no-global? Un’associazione campesina planetaria? Un gruppo di nuovi ambientalisti pragmatici e concreti?  O qualcos’altro ancora indefinito? A fine di quest’anno, a Città del Messico, ci sarà il congresso mondiale di Slow Food. Viene davvero voglia di andare a vedere cosa accadrà.

Una vita slow? 
Infine, prendete fiato e toglietevi un’illusione: non crediate che Slow Food sia slow. Per tenere in piedi tutto questa macchina imponente, bisogna andare molto fast. Troppo, forse. Gli uffici di Bra sono una frenesia quasi adrenalinica. Solo “i vecchi” sembrano ricordarsi che il piacere è la molla fondante di Slow Food e non rinuncerebbero per nulla al mondo all’aperitivo serale da Converso, ma la banda dei ragazzi di via della Mendicità Istruita non ha tempo. Lavorano, con passione, dieci e più ore al giorno. E io sono riuscito a vedere Carlin Petrini (irraggiungibile per quasi un mese) solo perché si era rotto un piede e, almeno per mezza giornata, doveva stare fermo. I 40 minuti di colloquio sono stati una baraonda (altro che intervista): Carlin riusciva a dare ascolto alle mie domande mentre al telefono aveva uno dei migliori cuochi di Francia, e poi c’era il suo capoufficio stampa che gli spiegava i programmi della giornata, una giapponese stava fremendo su una sedia per parlargli e, alla fine, è arrivato anche Roberto Burdese per una microriunione. Poi con il piede rotto, Carlin se ne è partito per Nizza: seminario interno di Slow Food. Insomma, sembra proprio che il mondo non si cambi con la lentezza. 


Slow, chi è pro e chi è contro 
“Ricordo i Giochi del Piacere: ci ritrovavamo, sparsi in mezza Italia, per assaggiare vini e poi ci telefonavamo per stilare una classifica. Erano serate felici, spensierate. Questa atmosfera si è persa in Slow Food. Per paradosso, è scomparso il piacere che era alla base di quella leggendaria ArciGola”. Sandro Pieroni, 48 anni, funzionario pubblico a Castelnuovo Garfagnana, ha antiche nostalgie: fece la tessera dell'ArciGola nel gennaio del 1988. “È come se avesse prevalso una ricerca élitaria rispetto a un gusto popolare: non ci trovavamo più in osteria, ma nei ristoranti più lussuosi. Ad un certo punto si è privilegiato la tecnica di una cucina lontana dalla gente, non si sono più frequentati trattorie ed osterie a misura d’uomo. Ho la sensazione che Slow Food sia diventata un’impresa troppo grande che, giocoforza, deve rispettare le regole del mercato. Il primo Salone del Gusto era bello e spartano, oggi mi appare una colossale fiera commerciale. Slow Food si è allontanata dal territorio”.   

“Slow Food mi ha aiutare a ritrovare il gusto che avevo perduto. Pensiamo sempre che il prosciutto sia quella fetta rosina e moscia che ci tagliano al supermercato. Così non è: quel maiale è stato allevato male, ucciso in modo sbagliato, le sue carni sono state lavorate senza passione. Slow Food ha fatto comprendere a tanta gente l’inganno delle produzioni industriali. Ha insegnato di nuovo a capire i veri sapori”. Lucia Zucconi, 46 anni, ha lasciato, cinque anni fa, un lavoro da informatica per fare la cuoca. Vive nelle prime colline del Chianti. E la sua ammirazione per Slow Food (socia della condotta di Scandicci) è bella e sincera. “I ragazzi che crescono nelle città, si sono disabituati al buono. Mangiano schifezze. Assaggiano le fragole e dicono che sanno di caramelle. Slow Food  ha fornito strumenti di conoscenza. Hanno messo in rete produttori, consumatori, cuochi e ora anche i contadini del mondo. E ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità”. 

I box di quel vecchio articolo...

L’arma dei presidi 
I Presidi sono uno dei simboli del successo di Slow Food, una lente d'ingrandimento su prodotti tradizionali in via d'estinzione che sono così portati all'attenzione del grande pubblico. Tutte storie straordinarie: si va dal leggendario lardo di Colonnata al sale marino artigianale di Cervia, dal fico dottato del Cosentino al violino di capra della Valchiavenna. I Presidi (oggi circa 200), in sei anni di vita, hanno ribaltato il destino di centinaia e centinaia di agricoltori, allevatori, osti e mercanti del cibo. Salvato il fagiolo zolfino come il peperone corno di bue di Carmagnola, le pesche tardive di Leonforte come l'aglio di Resia. Ogni prodotto è una storia a sé: a Slow Food arrivano segnalazioni da parte dei fiduciari delle condotte, di associazioni agricole o di amministrazioni pubbliche. La decisione finale viene presa a Bra. 
Si cercano sponsor per sostenere un Presidio e pagarne la promozione (soprattutto ospitando i produttori per due anni al Salone del Gusto di Torino) e la stesura di un disciplinare di produzione. In genere è un contratto valido almeno due anni. “Ma è un fenomeno che si sta esaurendo -dice Sardo-: di Presidi ne verranno creati un'altra decina. Non di più. Poi le porte si chiuderanno”.

L’università del cibo 
Studiare all'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo costa 19 mila euro l'anno. “Roba da benestanti - ammette Vittorio Manganelli, direttore dell'Università-. È un punto debole: abbiamo borse di studio solo per 200 mila euro”. La retta di quattro ragazzi kenyani, per esempio, è pagata interamente da queste borse. Gli studenti (quest'anno usciranno i primi laureati del corso triennale inaugurato nell'ottobre del 2004) sono attualmente circa 180. 
Gli studenti avranno una casa, un computer, i pranzi e due stage annuali in Italia e all'estero. 
Dopo la prima laurea, si può continuare a studiare a Colorno, in provincia di Parma, per il master (21 mila euro di retta). 
I professori sono ben pagati: almeno 4 mila dollari per una docente che viene dalla California per dieci giorni a Pollenzo.   
Vale la pena studiare “scienze gastronomiche”? L'idea di Carlin Petrini e di chi ha progettato l'Università (rettore è Alberto Capatti, storico dell'alimentazione) è di preparare dei futuri “gastronomi”, degli “intellettuali del cibo”, ottimi comunicatori e grandi organizzatori. “Vorrei vedere i ragazzi che escono di qui andare a dirigere consorzi, a lavorare nei ministeri o nelle organizzazioni internazionali: lì c'è bisogno di gente che sappia di cibo e che abbia capacità di visioni -dice Vittorio Manganelli-. Sarei deluso se, invece, finissero a fare le pubbliche relazioni per un'industria alimentare”. 

Cibi dei poveri ricchi 
Prezzi da capogiro per i prodotti che riescono ad entrare nell'universo Slow Food. Chi può permettersi di comprare i fagioli zolfini o di mangiare in un'osteria benedetta dai critici dell'associazione? 
“Mi arrabbio -risponde Piero Sardo, presidente della Fondazione per la Biodiversità-. Nessuno di noi pasteggia tutti i giorni a zolfini. Bisogna fare delle scelte: quanto spende una famiglia italiana in telefonia? Quanti cellulari possiede ognuno di noi? Negli anni '70, il 32% del bilancio di una famiglia era riservato al cibo. Oggi questa percentuale si è dimezzata. Se si sceglie di spendere i propri soldi nella bolletta telefonica, si mangia male. Basterebbe che la spesa alimentare risalisse di qualche punto percentuale per poter parlare di qualità del cibo”. 

Il mais zapatista 
No, zapatisti e Slow Food non sono fatti per intendersi. Slow Food chiedeva una rappresentanza di produttori di mais e cercava di convincere le comunità zapatiste a produrre anche per il mercato. 
“Non hanno capito nulla del Chiapas -ricorda un cooperante italiano-, avevano fretta e non hanno compreso che non esiste un'idea di rappresentanza fra gli zapatisti, che non poteva essere accettata una discriminazione fra i contadini, che il mais viene prodotto solo per autoconsumo”. “È vero -riconosce Piero Sardo-, abbiamo sbagliato, abbiamo avuto fretta. Storia finita male. Non ne facciamo un dramma. Siamo consapevoli che l'idea di presidio è escludente: chi non riesce a garantire la qualità del prodotto ne è escluso. Ma in Guatemala il lavoro con i produttori di caffè ha dato i suoi frutti: produrre chicchi di qualità ha innescato un meccanismo virtuoso che ha portato benefici a tutta una regione”. 

Torino, 27 ottobre











   




venerdì 26 ottobre 2012

Trieste è sul mare


I blog autorizzano qualsiasi violazione di regole. Ora sono a Torino. Ho il Po vicino a casa. Ma pochi giorni fa ero dall'altra parte del Nord Italia. A Trieste. E ho un debito verso quella città. Ho voglia di ricordarla. E non trovo di meglio che andare in cerca di un vecchio articolo scritto qualche anno fa per TuttoTurismo. Le riviste sono state l'alibi per conoscere luoghi sempre sognati. Quindi, scusatemi, questo non è un post. E' un lungo articolo. E io difendo la 'lunghezza' degli articoli.

Ho un altro debito ben più importante. Una persona che mi aiutò a capire l'anima di Trieste fu Virgilio Zecchini, un panettiere-alpinista-marinaio. Fu Paolo Rumiz a suggerirmi di incontrarlo. Virgilio non mi concesse un'intervista: mi portò a camminare in Carso. E fu un grande regalo.
Pochi mesi, mentre camminava lungo i suoi sentieri, Virgilio se ne è andato. E' la persona che più ricordo dei miei giorni di Trieste.


Il molo Audace


Il cielo è smagliante. Azzurro elettrico. Azzurro perfetto, come laccato dalla bora chiara. Dovrei essere in mezzo al mare per capire Trieste. Per ritrovare un orientamento possibile. Con ruvidezza gentile, Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, mi aveva spiegato: ‘Trieste è l’unico posto d’Italia dove puoi vedere le Alpi oltremare. Dove le Dolomiti innevate sono lo sfondo della partenza dei traghetti per la Turchia e la Grecia. Qui mare e montagne si toccano come le quinte di un teatro’. Giovanni Montenero, fotografo che smarrisce le foto, ne ha recuperata una per me: le vele (mille e 840 lo scorso anno) della Barcolana, la più frastornante fra le regate italiane, sono allineate nelle acque di Barcola e aspettano, in un fulgore di vento e colori, il segnale della partenza. Giovanni ha scattato quella foto dalle banchine di Pirano, terra di Slovenia, quasi venti miglia lontano da Barcola: le barche sembrano salpare direttamente dalle rocce del Carso, le pietre di questo altopiano duro e sassoso, disseminato di doline e caverne, sono il molo di partenza di una regata folle e  festosa. A Trieste i venti del mare e quelli della montagna si confondono.

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Trieste e il mare


‘Trieste è una città mediterranea’, mi sorprende Marko Kravos, 64 anni, poeta italiano di lingua slovena (ha un biglietto da visita con su scritto poet). Mai lo avrei pensato, ma ha ragione: questa città di mare è la frontiera fra la Mittleuropa e il Mediterraneo. ‘E’ il profondo Nord che si protende verso il mare’, mi dice Fulvio Molinari, velista e scrittore (sì, scrivono tutti a Trieste). ‘E’ la città più meridionale dell’Europa del Nord’, avverte Mauro Covacich (ha 43 anni e anche lui fa lo scrittore. Ed è bravo). E Duino, ultimo comune della sua minuscola provincia, la più piccola d’Italia, è il punto più a Nord del Mediterraneo. In questo disorientante andirivieni geografico (cambiano i punti di vista se guardi questa città dal cemento brusco del molo Audace o se ti affacci dai balconi carsici di Opicina e della passeggiata napoleonica) c’è una stupefacente certezza: Trieste ha un languore tutto suo. Perditempo e bellissimo. Degno di quello di Napoli. ‘Trieste è una Napoli del Nord’, conferma Covacich (anzi lui osa di più e parla di atmosfere carioche e, allo stesso tempo, californiane). E la ragione è semplice e, a suo modo, sorprendente: in questa città, racchiusa, ad occhi stranieri, solo nello stereotipo (altrettanto vero. O, forse, no) della sua anima asburgica, il mare c’è per davvero.



Il mare entra in Trieste


Nei miei viaggi per le città del Mediterraneo ho scoperto che il mare è lontano da Marsiglia o da Genova, da Haifa o da Palermo. Le sue onde sono negate ai cittadini dalle banchine dei grandi porti. I triestini, gente del Nord (o del Sud?), invece, non possono vivere senza mare. Appena spunta un raggio di sole se ne vanno a distendersi sul pavè della passeggiata fra Barcola e il bianco castello di Miramare. Una siepe di oleandri separa questo lungomare, tre chilometri di camminata, largo mai più di dieci metri, dalla trafficata strada costiera, eppure, eccoli lì, i triestini: stanno in mutande e non vogliono perdersi né sole, né mare perfino nell’intervallo per il pranzo. Ci vanno anche in inverno, ‘con la sciarpa tirata su fino agli occhi’, quando il cielo promette tempeste e il Mediterraneo è annerito di malumori o bianco dei ventagli di bora. E se poi non si spingono fino a Miramare, i triestini camminano lungo le rive, sorpassano la darsena di Sacchetta, raggiungono il molo dei Fratelli Bandiera, costeggiano un muro di calce bianca e si sistemano nel rifugio dei bagni Lanterna (i più popolani) ed Ausonia (i più snob). Il bagno Lanterna, conosciuto dai triestini come el Pedocin (qui venivano a spidocchiarsi i soldati imperiali), fu inaugurato nel 1890 e, ancor oggi, è diviso da un muro che cerca di tener separata, almeno per una ventina di metri, perfino la risacca del mare: le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Alle sette del mattino, in estate, le babe triestine (le vecchie signore chiacchierone della città) si spintonano come teen-agers a un concerto rock pur di conquistare una sedia di plastica bianca (sono solo duecento a disposizione dei bagnanti) e i posti migliori sul ghiaino del Pedocin. Il custode del bagno, aperto anche in un giorno di inverno, mi confessa: ‘Questa estate abbiamo venduto biglietti per 155mila euro’. A 80 centesimi a biglietto. Non faccio i conti e nemmeno verifico la mia fonte innocente, mi immagino solo la splendida ressa.

I bagni dentro la città, in inverno
El pedocin

Le navi a Trieste
Le grandi navi a Trieste

Città di matti


Sono pieno di prove su Trieste come città mediterranea. Qui, ai primi dell’800, Josef Ressel inventò l’elica. Qui lavorava Carlo Sciarrelli, leggendario progettista di sensuali barche a vela: un ex-ferroviere autodidatta che è stato capace di costruire (quasi) ‘la barca perfetta’. Fulvio Molinari è certo: ‘Cinquantamila triestini sanno andare in barca a vela’. Come dire: un quarto della città. Nelle sue darsene, sono ormeggiate almeno seimila barche. E ci sono quattordici società veliche. E ancora: l’altezzosa Piazza Unità, la piazza del potere e dello struscio domenicale della buona borghesia triestina, si apre, unica in Italia, sul mare. Il suo lato occidentale è  una ‘riva’, una banchina, un abbraccio splendido fra città e Mediterraneo. ‘L’Adriatico è solo un corridoio per andare oltre l’orizzonte’, mi dice ancora il poeta Kravos. D’altra parte il primo piroscafo (e si chiamava proprio Primo) che attraversò il canale di Suez era stato varato a Trieste.  E triestino (vi arrivò da Venezia, all’età di due anni) era il finanziere Pasquale Revoltella così cosmopolita e preveggente da diventare vicepresidente della Compagnia Universale impegnata a progettare quel canale egiziano che aprì le porte del Mediterraneo.

Il maiale di Pepi S'avo

Il mercato


Ci voleva Virgilio Zecchini, ex-panettiere, 70 anni portati con meraviglia, faccia rugosa, scaltra e rassicurante come solo un alpinista riesce ad avere, per portarmi via dal mare (lui, che è anche un gran velista). Volevo fare una chiacchierata con lui e, come tutta risposta, mi ha fissato un appuntamento alle nove di un luminoso mattino di fine autunno in cima al Carso e per quattro ore mi ha fatto scarpinare per la val Rosandra. Valle alpina a due passi dal centro di Trieste. E’ stata una bella intervista silenziosa e tonica: bastavano i sentieri di questa valle, un grandioso crepaccio calcareo scolpito, nei millenni, dall’unico torrente a cielo aperto del Carso italiano, a spiegarmi ciò che Virginio voleva farmi capire. Le pareti della val Rosandra sono una falesia compatta con più di ottanta vie di arrampicata dai nomi diventati piccola leggenda. In fondo alla valle c’è la sperduta trattoria di Botazzo (vi si arriva solo a piedi: è un villaggio di tre case, un luogo da clandestini o da vecchi contrabbandieri, sta a dieci metri dalla vecchia sbarra di un confine che non c’è più): sedetevi ai suoi tavoli (è aperta nei finesettimana) e sentirete gli alpinisti parlare delle mille avventure vissute appesi alle corde delle le scalate ai sassi della Dama Bianca, del Pipistrello, dei Falchi, della Vergine… A Trieste si diventa sestogradisti a cinque minuti dal Mediterraneo. Lo stile degli arrampicatori triestini, mi spiegano, è inconfondibile: gli esperti sanno riconoscerli dal modo con il quale si tirano su. Sono agili ed eleganti. Qui è ancora viva la memoria grandiosa di Emilio Comici, straordinario alpinista triestino che scalava le montagne seguendo ‘la linea della goccia che cade’. ‘Al mattino guardo il cielo – dice Virginio Zecchini – Se c’è borino, vado in barca. Se è bonaccia vengo in montagna’. E la lunga passeggiata con Virginio non poteva che finire al rifugio Premuda, costruito là dove la val Rosandra finisce. E’ il rifugio del Cai più basso di tutte le Alpi, credo il più basso del mondo: sta a settanta metri (o forse 82, a seconda delle guide) sul livello del mare. E’ la locanda perfetta. Qui i marinai triestini si tolgono la cerata da bora e calzano le pedule da arrampicata.  

La piazza

La piazza rovesciata

I dettagli di Trieste

Le architetture

I momenti di Trieste

La piazza

La piazza


Ecco, Trieste mi ha distratto e ingannato. Più di metà dell’articolo se ne è andato nel raccontare la meraviglia della sua scenografia così visibile e così ignorata dal resto d’Italia. E ora? Ho promesso, quasi per scommessa, che non sarei andato a farmi spiegare Trieste da Claudio Magris (è vero: ha un tavolo riservato per sempre al caffé san Marco, il più asburgico e affascinante della città. Lì riceve perfino la posta), né dalla astronoma fiorentina Margherita Hack. E’ così che mi sono imbattuto in Jan Morris, scrittrice gallese, che, in duecento bellissima pagine, ci ha spiegato che ‘Trieste è un nessun luogo’. Ma, poi, per caso, ho ritrovato la stessa definizione in un articolo di oltre vent’anni fa di Magris. Trieste è un hiraeth, scrive ancora la Morris. Una nostalgia. Magris (alla fine è come se lo avessi intervistato) aggiungerebbe che qui è come se ‘tutto debba ancora incominciare, che la vita debba ancora venire’. Trieste è il luogo in cui si sono mischiati latini e slavi, mittleuropei e gente del Sud, ebrei e greci. Ora che il confine, l’ex-cortina di ferro (a ricordo, una lapida all’altezza di Miramare rammenta ancora che Berlino è lontana 1080 chilometri), è scomparsa, possiamo dirlo con felicità. Qui hanno trovato rifugio ‘artisti, emarginati, rinnegati, esuli, redditieri’. Oggi bisogna aggiungere anche gli scienziati, gli studenti cosmopoliti e i ‘matti’. In una città priva di territorio, le religioni hanno eretto chiese immense (santo Spiridione dei serbo-ortodossi sul Canal Grande, sant’Antonio Taumaturgo dei cattolici a dominare lo stesso Canal Grande, san Nicolò dei greco-ortodossi sulle rive) e la sinagoga più grande d’Europa. Non c’è un filo conduttore a Trieste. Pensate:  tutti, o quasi, in città piangono decadenza e memorie dello splendore dei tempi dell’impero austro-ungarico (Trieste, porto franco dal 1719 per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, è stato, per quasi due secoli, fra gli scali più importanti del mondo) proprio mentre la rivista Fortune, nel compilare l’elenco delle città più ‘potenti’ del mondo, mette in classifica, per l’Italia, Milano, Roma, Torino. E Trieste. Qui, in una nuvola di riservatezza assoluta, ha sede le Generali (fondata nel 1831 da finanzieri ebrei), centro di un potere economico assoluto. Il caffè Illy, in pochi anni, è diventato celebre in ogni angolo della terra (sei milioni di tazzine vendute ogni giorno). E ancora: fra la sfolgorante bellezza marina di Miramare e le asprezze carsiche di Basovizza, ci sono 84 laboratori di ricerca scientifica, c’è la macchina di luce Elettra (il celebre sincrotrone di Rubbia), ci sono i ricercatori delle biotecnologie e i migliori cervelli della fisica teorica. C’è la Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, una sorta di Università Normale scientifica. Ci sono matematici e genetisti, astronomi ed oceanografi. Arrivano qui da ogni parte del mondo. Il pakistano Abdul Salam dirigeva il centro internazionale di fisica teorica a Miramare quando ebbe il Nobel. A Trieste ci sono 37 ricercatori ogni mille abitanti. Più che nella Silicon Valley, immagino.

Il parco

James Joyce

Umberto Saba

Il palazzo della Borsa

Italo Svevo


Non è certo finita: qui c’è anche la più alta concentrazione di scrittori d’Italia (e di lingua slovena. A Trieste sono due gli aspiranti Nobel: oltre a Magris, c’è Boris Pahor, vivacissimo e irrefrenabile con i suoi 93 anni, quasi sconosciuto in Italia, scrittore di culto in Francia).  E’ come se la statue di Joyce (sul ponte sopra il Canal Grande intento a raggiungere la sua scuola Berlitz), di Umberto Saba (che sta camminando verso la sua libreria in via san Nicolò) o di Italo Svevo (in piazza Hortis, a un passo dalla Biblioteca Civica) vegliassero su legioni di romanzieri. O aspiranti tali. Andate al caffé san Marco (Magris a parte) e al caffé Tommaseo e vedrete frotte di scrivitori che stanno meditando (penna o computer alla mano) sui loro romanzi con i piedi poggiati sulle zampe di ghisa dei tavolini di marmo. Le pagine dei lettori, ‘Segnalazioni’, del Piccolo, quotidiano della città, sono sempre intasate (e le più lette) di scritti dei triestini.

Il parco e la statua

La donna e i gabbiani

Inverno

Il sole d'inverno


Non ho più spazio. Avrei bisogno di un libro per Trieste. E’ una città eccessiva per un articolo di rivista. Alla fine mi nascondo in un posto irrituale. All’ex-manicomio di san Giovanni. Al ristorante del Posto delle Fragole, gestito, in gran parte, da chi ha avuto guai con la sua testa. Guardo la gente e i matti. E non so più distinguerli. Sono certo che la bora, i conflitti di identità (agli sloveni il fascismo cambiò persino i cognomi), la vicinanza claustrofobica del confine afferravano i pensieri della gente e li facevano turbinare. Ma qui, trenta e più anni fa, per la prima volta, si aprirono le porte dei manicomi italiani. Franco Basaglia e la sua gente vinsero una grande e difficile battaglia di civiltà. Orietta Polizzi, 45 anni, torinese, venne a Trieste per sfuggire a un destino di disagio: oggi è la presidente della cooperativa che gestisce ‘Il posto delle fragole’: ‘Dopo tanti anni possiamo dirlo: i matti hanno vinto la loro sfida. Sono tornati in mezzo alla gente e con un lavoro a diretto contatto con il pubblico’. Il bar-ristorante di san Giovanni è un buon posto. Sta a mezza costa. Fra mare e Carso. Il parco dell’ex-maniconomio è bellissimo, aperto alla gente, attraversato da un autobus. A una fermata, trasformata in un cubo di poesie, lo prendo per ridiscendere in città. Di fronte alla stazione, la principessa Sissi, come sempre un po’ ribelle, se ne sta seduta su una panchina. Ho la conferma che lo scrittore Covacich ha davvero ragione: Trieste assomiglia a Sissi (la principessa si regalava lunghe passeggiate a Miramare), ma oggi più che asburgica e pretenziosa appare come una giovane Sissi contemporanea. Una donna bella e vivace, morbida e sensuale. Un po’ altera a prima vista, ma allegra e sorridente appena ne prendi confidenza. Ha il ‘piercing, i capelli blu cobalto e una salamandra tatuata sul collo’. A metà mattina si regala, con un piacere sottile, un calice di bianco e una polpetta in osteria. Si vive bene a Trieste.  

Via della Bora